Vitalizi: chi si oppone al taglio e perchè? L’idiozia dei diritti acquisiti.

VITALIZI. Scusate ma vista questa foto non ho resistito.

Iniziamo a comprendere cosa sia realmente il vitalizio:  è l’ ‘assegno pensionistico’ che i parlamentari ricevono alla fine del mandato e non prima di aver compiuto il 65esimo anno di età (salvo eccezioni). L’importo viene calcolato con il sistema contributivo, analogo a quello vigente per tutti i dipendenti dello Stato.

Attenzione. 

I parlamentari godono comunque di un trattamento pensionistico, che acquisiscono di diritto per i versamenti trattenuti alla fonte dalle loro “misere” buste paga. Questo è un diritto inappellabile.

Il vitalizio è un’aggiunta, una somma che percepiscono solo per aver effettuato un mandato (e non sto parlando solo dei parlamentari, ma ad esempio dei consiglieri regionali, Nicole Minetti – tanto per fare un nome – avrebbe già potuto percepirlo al termine del mandato perchè la legge era diversa e non si dovevano attendere i 65 anni, ma vi ha rinunciato SOLO perchè la Regione Lombardia le ha dato una buonauscita di 80.000 € link della notizia) (altro…)

Siamo proprio sicuri che i pedaggi autostradali siano legittimi? Io dico no, e studiando la storia dell’Iri vi spiego il perchè.

Perchè pagare i pedaggi autostradali?

 

L’altra sera alla Gabbia di Paragone hanno mostrato quanti sono stati i primi utili semestrali delle società che gestiscono la rete autostradale: una su tutti, il Gruppo Benetton, che nei primi sei mesi dell’anno, grazie ai pedaggi autostradali perennemente aumentati (e lo saranno anche nel 215), ha realizzato utili netti dichiarati per 386 milioni di euro.

Sarebbe interessante sapere di questo importo, quanto i Benetton decideranno di versare in tasse, o se useranno lo strumento saldo-stralcio (di cui parlerò in altro articolo e che è disponibile, udite udite, per ogni singolo contribuente) e perchè lo stesso gruppo, proprietario della rete Autogrill, nonostante utili del genere, stia portando avanti un piano drastico di riduzione del personale. Ah, tra parentesi il Gruppo Benetton è coinvolto nello scandalo LuxLeaks di cui ho parlato qualche giorno fa, ben prima che i media fossero costretti a farlo.

Certo che devono essere particolarmente grati a Prodi, che gli ha svenduto nello smantellamento Iri, la gestione della parte più importante della rete autostradale, ed a Berlusconi, che ha consentito l’aumento deciso univocamente dei pedaggi autostradali stessi, portandolo a cifre assurde: negli ultimi tre anni, secondo l’Istat, l’aumento medio è stato attorno al 12% su tutta la rete. Bazzecole, vero?

Specie considerando che un decreto legge del 2010 citava testualmente: Dal 1° luglio decorrono le maggiorazioni tariffarie sulla intera rete autostradale a pedaggio, che non sono a beneficio delle concessionarie. Le misure riguardano: una maggiorazione tariffaria, al netto dell’Iva, su tutta la rete autostradale a pedaggio di 1 millesimo di euro a chilometro per le classi di pedaggio A e B (auto, moto, veicoli a 2 assi etc.) e 3 millesimi di euro a chilometro per i veicoli pesanti (classi 3, 4, e 5); una maggiorazione tariffaria forfetaria, sempre al netto dell’Iva, di 1 euro per le classi di pedaggio A e B e di 2 euro per quelle superiori (classe 3, 4 e 5) presso i caselli di esazione delle autostrade a pedaggio che si interconnettono con le autostrade e i raccordi autostradali in gestione diretta Anas. Queste maggiorazioni tariffarie non potranno, comunque, essere superiori al 25% del pedaggio altrimenti dovuto.

Quanto dovremmo aspettarci ancora di aumenti? Sempre pronti a pagare popolo bue?

Allora, facciamo un passo indietro nella storia della costituzione della società Autostrade per l’Italia: i pedaggi autostradali avevano un compito ben specifico. Finanziare la costruzione delle autostrade e mantenerne la funzionalità.

Vi chiedo, a fronte di tutti gli aumenti che ci sono stati propinati, quante nuove autostrade sono state costruite? E com’è lo stato di manutenzione di quelle esistenti, piene di buche, con caselli che spesso si bloccano e non funzionano, nessun tipo di automazione se non il sistema Tutor per multarci, nessun tipo di evoluzione.

Anzi no, sono stati introdotte le casse automatizzate, per ridurre ancora di più i posti di lavoro. Bella trovata.

Perchè allora continuiamo a pagare i pedaggi autostradali?

In effetti, non dovremmo.

Come dicevo, torniamo indietro nella nostra storia, e più precisamente all’Iri, dagli anni 30 agli anni 70.

In uno dei suoi ultimi scritti, Joseph A. Schumpeter (1883-1950) riconosce che l’imprenditore va oltre la singola personalità: l’imprenditore e le sue iniziative possono appartenere a un’entità collettiva. Schumpeter fa l’esempio del ministero dell’Agricoltura americano, con la sua opera di risanamento del territorio dopo la grande crisi (R. Swedberg, Joseph A. Schumpeter. His life and work, 1991, trad. it. 1998, p. 189). L’Istituto per la ricostruzione industriale (IRI) appare in tali vesti sin dalle origini. Fondato nel gennaio del 1933 per tagliare i legami fra le maggiori banche del Paese e le grandi imprese industriali, si trovò a possedere più del 40% del capitale azionario italiano.

L’IRI era considerato dai suoi ideatori un ente provvisorio che, una volta risanate le imprese, avrebbe dovuto privatizzarle (‘smobilizzarle’, nel linguaggio di allora). Tutto ciò non fu possibile poiché dovette rilevare aziende nei cosiddetti core sectors della seconda rivoluzione industriale: la siderurgia, la cantieristica, la meccanica pesante, l’elettromeccanica, l’industria elettrica. Si trattava di settori ad alta intensità di capitale, con imprese non solo costose da acquistare, ma, soprattutto, da gestire. In Italia non vi erano né capitali disponibili per questo tipo d’investimento, né capitalisti coraggiosi in grado di indebitarsi e di correre rischi in nome dell’interesse nazionale. Per questo, nel 1937, l’IRI venne dichiarato ente permanente e lo Stato italiano divenne il più grande proprietario d’industria in Europa, dopo l’Unione Sovietica.

Avere evocato questo Paese, il primo Paese socialista, può indurre a ipotizzare un tentativo di nazionalizzazione della nostra economia, sottratta al mercato e sottoposta a una serie di prezzi amministrati. Ma il fondatore dell’IRI aveva tutt’altre idee: Alberto Beneduce (1877-1944) apparteneva a quell’élite meridionale ‘illuminista’, seguace dell’intellettuale e uomo politico lucano Francesco Saverio Nitti (1868-1953), che riteneva l’industrializzazione l’unico modo per risolvere la questione meridionale. Con Nitti, Beneduce aveva fondato l’INA (Istituto Nazionale delle Assicurazioni) e, in seguito, creerà alcune istituzioni finanziarie, come il CREDIOP (Istituto di CREDIto per le OPere Pubbliche) e l’ICIPU (Istituto di Credito per le Imprese di Pubblica Utilità), che si baseranno su un sistema di obbligazioni garantite dallo Stato; Beneduce utilizzerà lo stesso sistema per l’IRI, che rappresenterà nella storia italiana un’avventura imprenditoriale, nonostante un autorevole studioso inglese, Andrew Shonfield, l’abbia definito come «la più pazza nazionalizzazione della storia»

Beneduce dovette affrontare un vero e proprio uragano economico e, quindi, non mancarono nella soluzione ai gravi problemi da risolvere elementi di empirismo. Tuttavia, aveva alcune idee di fondo che applicò rigorosamente.

La prima, era che lo Stato si assumesse le sue responsabilità di proprietario e non svendesse le sue aziende. Beneduce privatizzò la Edison e la Bastogi perché per queste fu versato un prezzo congruo, ma respinse la richiesta di Giovanni Agnelli (1866-1945) che, alla testa di una cordata piemontese, voleva acquisire la SIP (Società Idroelettrica Piemonte). L’offerta venne giudicata insufficiente, così come quella dello stesso Agnelli, che voleva acquisire l’Alfa Romeo, e quella di Guido Donegani (1877-1947), che voleva inglobare nella Montecatini la Terni Chimica.

La seconda idea forte di Beneduce era introdurre una politica di razionalizzazione industriale basata sul settore. Alla superholding IRI, posseduta dallo Stato al 100%, facevano riferimento finanziarie settoriali di cui l’IRI controllava almeno il 51%: la STET (Società Torinese per l’Esercizio Telefonico), la Finmare (industria armatoriale) e la Finsider (siderurgia). A queste finanziarie facevano capo le aziende, le quali erano sottoposte ai dettami del codice civile e, quindi, operavano come imprese private.

Il terzo principio, conseguente a quest’ultimo punto, prevedeva che le aziende dovessero essere affidate alle cosiddette mani adatte, ossia a quelle di manager capaci come Ugo Bordoni (1884-1952) per la STET o Agostino Rocca (1895-1978) per la Finsider. Beneduce, che si circondò di collaboratori di prim’ordine come Donato Menichella (1896-1984), Francesco Giordani (1896-1961), Giuseppe Cenzato (1882-1969) e Pasquale Saraceno (1903-1991), risolse quindi brillantemente il nodo storico di un Paese che voleva industrializzarsi, ma al quale, come abbiamo detto, mancavano capitali e imprenditori.

La svolta si verificò nel 1948, con la nascita della finanziaria dell’IRI destinata a raggruppare le partecipazioni pubbliche dell’industria meccanica: Finmeccanica, anch’essa coinvolta nello scandalo Luxleaks.

L’Autostrada del Sole

Se è certamente da segnalare, fra le attività innovative dell’IRI, l’assunzione del controllo della RAI (Radiotelevisione Italiana) proprio quando questa iniziava a realizzare gli impianti di televisione e, nel campo del trasporto aereo, la creazione dell’Alitalia nel 1957 (L’istituto per la ricostruzione industriale – Iri, 1998), l’impegno dell’Istituto si rivelò di particolare importanza nella costruzione delle grandi reti, anzitutto quella autostradale.

All’inizio degli anni Cinquanta divenne evidente in tutta la sua gravità il problema delle infrastrutture di collegamento all’interno del territorio nazionale. Se l’Italia poteva contare su un’adeguata rete ferroviaria, i collegamenti stradali erano del tutto insufficienti. Nel 1940, su 20.000 km di strade, il 30% era senza pavimentazione. Quanto alla rete autostradale, erano in esercizio solo alcuni tratti, la Milano-Laghi, la Milano-Brescia, la Firenze-Mare, l’autocamionabile Genova-Serravalle. Era inesistente, però, un piano organico in questo campo.

Nel 1954, mentre stava entrando in produzione la prima utilitaria italiana, la Fiat 600, con il contributo della stessa Fiat, dell’ENI (Ente Nazionale Idrocarburi), della Pirelli e dell’Italcementi, nasceva la SISI (Sviluppo Iniziative Stradali Italiane): la società di engineering formulò un progetto per il tratto autostradale fra Milano e Napoli, poi donato allo Stato. Dopo aver constatato l’inadeguatezza dell’ANAS (Azienda Nazionale Autonoma delle Strade Statali) a raggiungere un risultato del genere, nell’aprile del 1956 il governo affidò alla tecnocrazia dell’IRI il compito di costruire l’asse portante del piano autostradale nazionale, ovvero l’Autostrada del Sole Milano-Napoli. Il presidente dell’Iri Aldo Fascetti (1901-1960) offrì a Fedele Cova (1904-1987), amministratore delegato della società dell’IRI Cementir (Cementerie del Tirreno), il ruolo di amministratore delegato della Concessioni e costruzioni autostrade SpA, con cui la holding pubblica dava inizio al proprio impegno in campo autostradale.

La società Autostrade poteva in realtà avvalersi solo di un progetto, quello della SISI, fondato su ipotesi non verificate e, in larga parte, già invecchiate; ma il problema più grave era dato dalla mancanza di finanziamenti adeguati e di capacità manageriali specifiche. Cova risolse pragmaticamente questi problemi, organizzando con i manager più importanti della società un viaggio negli Stati Uniti per aggiornarsi sulle più moderne tecnologie di costruzione e gestione delle autostrade. Il viaggio, che si svolse nella seconda metà del 1956, fu utilissimo per impadronirsi dei sistemi tecnici gestionali e finanziari che presiedevano all’esercizio delle turnpikes, le autostrade a pedaggio statunitensi. In Italia, Cova puntò quindi a riproporre il modello americano, dalla segnaletica all’impiego di guardrail, dall’eliminazione degli incroci a raso alle tecniche di esazione dei pedaggi, alla manutenzione, al controllo generale attuato tramite un elaboratore centrale Remington Rand comprato negli Stati Uniti. Si decise, inoltre, la costruzione di aree attrezzate di sosta per i rifornimenti, che venne lasciata in concessione alle società petrolifere per evitare un impegno diretto della società Autostrade.

Cova approntò per la società Autostrade un’organizzazione che faceva perno su una Direzione generale da cui dipendevano le Direzioni centrali (Amministrazione e Affari generali, e Direzione tecnica) e quelle periferiche (a loro volta articolate in Direzione d’esercizio – una volta entrata in funzione l’autostrada – e Direzione lavori, da cui dipendevano le imprese di costruzioni); all’inizio del 1957 i principali tratti del percorso erano già stati appaltati. Alla riorganizzazione si affiancò una vivace campagna di promozione: per l’opinione pubblica la nuova autostrada assunse un valore anche simbolico di volano per lo sviluppo locale e questo facilitò il rapido avanzamento dell’opera, che richiedeva l’espropriazione di terreni e decreti d’urgenza per il cambiamento di destinazione delle aree interessate. Il compimento dell’autostrada fu rapidissimo. Nel 1958 giunse a Parma, nel 1959 a Bologna, nel 1960 a Firenze e, infine, nel 1964 a Napoli.

Perchè questo excursus storico?

L’IRI è stato senza dubbio uno dei protagonisti di quella stagione straordinaria che è stata definita miracolo economico. Il responsabile delle Relazioni esterne dell’Istituto, Franco Schepis, scriveva alla fine degli anni Sessanta:

Un turista straniero arriva in Italia con un aereo dell’Alitalia? Alitalia è la compagnia aerea dell’Iri. Sbarca a Genova da uno dei più bei transatlantici del mondo come la Michelangelo o la Raffaello, la Cristoforo Colombo o la Leonardo da Vinci? Sono dell’Iri. Noleggia una macchina veloce ed elegante come un’Alfa Romeo? È dell’Iri. Per uscire da Genova percorre la prima strada sopraelevata costruita in Italia? È dell’Iri, ed è stata realizzata con l’acciaio della Finsider (Iri) e il cemento della Cementir (Iri). Uscito dalla città prende un’autostrada della più estesa rete esistente in Europa? È dell’Iri. Si ferma per pranzare in un autogrill? È dell’Iri. Assaggia i prodotti della Motta e dell’Alemagna? Sono aziende Iri. Dopo pranzo, telefona a qualcuno della sua città, usando la prima teleselezione integrale da utente del continente? È una linea della Sip, cioè dell’Iri. Arrivato a destinazione, deve cambiare della valuta? Va in una delle principali banche italiane (la Banca Commerciale Italiana o il Banco di Roma o il Credito Italiano)? È anch’essa dell’Iri.

E fino a qua, ci siamo tutti. Come tutti sanno come Romano Prodi ha smantellato e svenduto tutte le proprietà nazionali dell’Iri.

Ma sono convinta che ben pochi sanno cosa l’Iri, ai tempi della costruzione della rete autostradale, aveva deciso.

Da sempre, le autostrade sono state una sorta di gallina dalle uova d’oro.

Eppure l’Iri dei tempi migliori aveva deliberato un modello teorico della concessione, secondo il quale gli introiti tariffari dovrebbero consentire al concessionario di ottenere una “congrua” remunerazione e di ammortizzare nel tempo il capitale investito sino ad azzerarlo allo scadere della convenzione, le convenzioni di moltissime concessionarie avrebbero dovuto essere scadute già da molto tempo, per avvenuto integrale rimborso del capitale investito.

Questo significa che i pedaggi autostradali avrebbero dovuto subire, una volta recuperato il capitale investito, una riduzione verticale.

Una delle ragioni per cui questo non è avvenuto sono le rivalutazioni monetarie del 1976 e 1983 grazie alle quali le concessionarie hanno enormemente “gonfiato”, nei loro bilanci, il valore contabile dei beni gratuitamente devolvibili (cioè il capitale investito nell’autostrada).

Gli investimenti erano stati finanziati pressoché interamente a debito, da tutte le concessionarie. A fine 1975 le 21 concessionarie avevano un capitale proprio (equity) di 115 miliardi di lire, a fronte di 5.100 miliardi di investimenti.

Il nuovo sistema tariffario (price cap) è partito poi stabilendo norme per gli incrementi di tariffa, ma accettando per buoni i livelli tariffari esistenti, senza verifica della loro congruità rispetto al capitale netto investito residuo di ciascuna.

La maggior valutazione dell’’autostrada (o del ramo d’azienda cui è intestata la concessione) si giustifica solo perché produce “extraprofitti”, cioè profitti molto superiori a quanto sarebbe “congruo” rispetto ai valori storici. Il maggior valore viene stimato attualizzando questi “extraprofitti” futuri attesi. Se si riconosce alla società il diritto a vedersi “rimborsare” (e remunerare) il maggior valore per il solo fatto di averlo iscritto a bilancio, in pratica si raddoppiano gli extraprofitti: oltre a pagarli come flusso si pagano anche per il loro valore attuale!

I pedaggi hanno rappresentato una vera e propria imposta occulta, ovviamente a carattere regressivo, cioè non equa perché non colpisce i più ricchi, ma semplicemente coloro che sono costretti a utilizzare la macchina, magari i pendolari. Con conseguenze per l’inflazione, legate all’aumento del trasporto merci, ragguardevoli.

Le autostrade furono costruite con denaro pubblico e ripagate dagli utenti, per motivi di pubblica utilità. Il fatto che ancora oggi non ci siano autostrade in Basilicata, da Taranto a Reggio Calabria, o in Sardegna, lascia supporre che le nostre autostrade abbiano essenzialmente lasciato inevasi i bisogni sociali di mobilità a esse connesse.

In linea di principio, tutti questi soldi esatti dallo Stato potevano ancora tornare utili alla costruzione di scuole e asili. Invece, nel 1999, Autostrade per l’Italia, che rappresentava il 50% della rete e il 70% del traffico, venne ceduta ai privati, in blocco. Un vero peccato, se si pensa che Autostrade, fondata da Iri nel 1950, aveva una redditività altissima.

La disastrosa situazione finanziaria delle imprese concessionarie e la necessità di risolvere il contenzioso maturatosi negli anni ’80 hanno reso necessario un processo di riassetto del settore autostradale.

Tale processo ha avuto inizio nel 1992, con un provvedimento legislativo inserito nella legge 498/92, la quale ha demandato al Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica (Cipe) l’emanazione di direttive per la concessione della garanzia dello Stato e per la revisione delle convenzioni e dei pedaggi autostradali.

Alla luce di tale mandato, nella delibera del 21 settembre 1993, il Cipe ha stabilito i criteri per la revisione di tutte le convenzioni e per la determinazione dei pedaggi autostradali. Questi ultimi, determinati sulla base dei medesimi criteri applicati alle tariffe dei pubblici servizi, devono venir stabiliti in sede di rilascio o di revisione della concessione sulla base di un Piano Finanziario presentato dall’impresa concessionaria, e devono esser sottoposte a verifica quinquennale, a meno che intervengano scostamenti significativi rispetto ai parametri presi a riferimento nei Piani Finanziari.

Inoltre, in sede di revisione delle convenzioni, si sarebbero dovuti verificare gli eventuali squilibri di natura economico-finanziaria derivanti dai mancati adeguamenti tariffari e risolvere quindi l’eventuale contenzioso fra ente concedente ed impresa concessionaria.

Autostrade pagava a Iri un dividendo che, dagli iniziali 16 miliardi di lire, era salito a 140,5 milioni euro nel ’99. Lo Stato, allora, si trovò all’improvviso nella condizione di dover fare il regolatore; fu istituito un sistema, detto del price cap, che doveva impedire al privato di fare “superprofitti”, la qual cosa era molto probabile dato che le strade sono un monopolio naturale e Autostrade spa non aveva concorrenza.

Il Cipe, contestualmente, fissava una tariffa ottimale, che garantisse una remunerazione congrua del capitale, al netto degli investimenti che il concessionario doveva fare, liberando i consumatori dal rischio di pagare troppo. Ma, in realtà, il concessionario continuava a fare superprofitti come prima l’Iri ricavava rendite: Autostrade, nel periodo 1998-2002, ad esempio, fece investimenti sulla rete molto inferiori a quanto il governo attuale sicuramente voleva semplificare, ma non avendo potuto mettere mano al cuore del problema ha stabilito una soluzione che potrebbe rilevarsi discutibile.

Il sistema tariffario italiano è chiamato price cap ma in realtà è ben lontano dall’’applicare tale modello regolatorio.

Mentre si regolano le variazioni delle tariffe non si è proceduto a determinare i livelli congrui delle tariffe iniziali sulla base dei capitali netti residui di ciascuna commissionaria; non si specifica che l’’obiettivo della regolamentazione sia quello di pervenire a una remunerazione “congrua” del capitale netto investito (Rab – Regulated Asset Basis), né che si debba riportare la redditività al livello “congruo” alla fine di ogni quinquennio (“claw back” dei profitti), aspetto che è invece la caratteristica essenziale della regolamentazione tramite price cap.

Attribuire poi il “rischio traffico” ai concessionari non introduce alcun incentivo all’’ efficienza ma si è solo rivelato una fonte di “extraprofitti” per le prudentissime previsioni inserite nei piani finanziari.

E’ evidente che la nuova regolamentazione tariffaria è stata pensata principalmente, se non esclusivamente, al fine di massimizzare il ricavo della privatizzazione di Autostrade.

Nel complesso, i risultati conseguiti dalla regolazione delle autostrade italiane dal 1997 ad oggi sembrano davvero fallimentari. Non si ha evidenza di miglioramenti significativi nell’’efficienza di costo, al di là dell’’applicazione di sistemi automatici di esazione già avviati nel periodo precedente . Gli investimenti previsti, sulla base dei quali le concessionarie ottennero nel 1999 lunghe proroghe delle concessioni (vedasi paragrafo successivo) e incrementi di tariffa, non sono stati realizzati se non in piccola parte. Le concessionarie hanno invece registrato enormi extraprofitti, cioè rendimenti sul capitale investito largamente eccedenti non solo rispetto ad un ragionevole Wacc ma anche rispetto agli stessi generosi livelli previsti nei piani finanziari.

La costruzione della rete autostradale italiana è stata finanziata pressoché interamente a debito grazie anche alla garanzia con la quale lo Stato assicurava i debiti delle concessionarie perché, sino alla fine degli anni ’90, quasi tutte erano considerate “pubbliche”. Le concessioni erano basate sulla logica della tariffa-remunerazione. I pedaggi dovevano servire a coprire i costi operativi e l’ammortamento dei debiti con i quali veniva finanziato l’investimento. La legge 463 del 1955 prevedeva che l’eventuale eccedenza dei ricavi oltre una contenuta remunerazione del capitale investito venisse devoluta allo Stato; questo principio veniva ribadito e rafforzato ancora nel 1961 con la legge 729 ed in leggi successive, sino al 1993.

Finito il grosso degli investimenti a metà anni ’70, dopo 15-20 anni molte concessionarie erano già state in grado di rimborsare i debiti finanziari e di ottenere una buona remunerazione sul capitale proprio versato (di regola modestissimo). Molte convenzioni avrebbero quindi potuto scadere negli anni ’90 per avvenuto integrale recupero del capitale investito. Ma quasi due terzi della rete apparteneva allo Stato tramite l’’Iri, e l’’Iri aveva bisogno di tutto l’ossigeno che poteva venirgli dalla Autostrade.

E’ questo che spiega o giustifica l’incredibile generosità dello Stato-regolatore, che proroga “gratuitamente” concessioni in scadenza, mantiene tariffe elevate e crescenti, accetta l’’ammortamento in tariffa delle rivalutazioni monetarie.

Per massimizzare il ricavo dalla cessione di Autostrade la sua convenzione viene prorogata  (in due tempi) di 35 anni, e lo Stato non può esimersi dal concedere generose proroghe anche alle altre concessionarie allora considerate “pubbliche”, anche se oggi si definiscono “private” e vantano i loro diritti contrattuali dimenticando tutti i “regali” ricevuti in passato proprio in quanto possedute da province e comuni.

Basta dare un’occhiata ai bilanci delle concessionarie italiane per vedere che il valore residuo dell’autostrada è ormai generalmente una quota modesta dell’’attivo, e in molti casi si è quasi azzerato, pur dopo le rivalutazioni monetarie e la capitalizzazione degli interessi e di ogni altra possibile spesa .

Se si applica la logica della tariffa-remunerazione i pedaggi dovrebbero dunque essere drasticamente ridotti o azzerati.

Si potrebbe anche applicare la tariffa-scommessa, come in Francia, ma gare per l’assegnazione delle concessioni con questa logica non sono mai state fatte, né le concessionarie hanno mai pagato il “biglietto” per questa scommessa. Manca dunque un’origine storica per la legittimità dei diritti che oggi esse accampano.

Quasi tutte le concessionarie, avendo rimborsato ormai i debiti finanziari, si sono trovate, già a partire dagli anni ’90, con flussi di cassa rilevanti e stabilmente crescenti che non avevano opportunità di impiegare nella costruzione di nuove autostrade.

CONCLUSIONI IN SOLDONI?

Quando si è iniziato a costruire la rete autostradale, i pedaggi venivano considerati una forma di remunerazione e di rientro del capitale investito, e fino a qua nessun problema.

Il problema è che ormai le Concessionarie NON ESEGUONO PIU’ alcun tipo di lavoro o miglioramento autostradale, tagliano i posti di lavoro, grazie al price cap possono permettersi di aumentare i pedaggi a proprio piacimento, nonostante il capitale sia ampiamente remunerato e quindi proprio i pedaggi non dovrebbero più esistere.

Complimenti a Prodi, Benetton & Co. per aver ladrato così bene una delle fonti maggiori di guadagno dello Stato Italiano. 

Quei denari avrebbero potuto essere utili per servizi di welfare, invece oggi diventano extraprofitti portati in Lussemburgo, esentati da tasse, con riduzione continua di personale e di costi.

Esiste qualche giurista che mi sa dire perchè io cittadina devo pagare questi pedaggi?

NON PAGHIAMO PIU’ NULLA, SE IL POPOLO E’ UNITO IL SISTEMA CROLLA, LO VOLETE CAPIRE O NO?

Riprendiamoci le concessioni che sono dei cittadini, perchè pagate con i loro pedaggi, e se proprio dobbiamo considerare un pedaggio da versare, che sia equo e soprattutto utilizzato per uno Stato Sovrano e Sociale.

Napolitano massone da generazioni

Lo ammetto, mi ha preso per il culo. Come 60 milioni di italiani, che almeno durante il suo primo mandato si sono dimenticati del suo passato e hanno sperato che fosse realmente una figura che avrebbe protetto Paese e Costituzione.

E invece, ha seguito passo dopo passo il volere della Troika, ufficialmente non ancora in Italia, o almeno non completamente.

Quando Berlusconi ha espresso il volere di portare l’Italia NON  fuori dall’Europa ma DALL’EURO, Napolitano ha risposto alla telefonata della Merkel e ha silurato il Cavaliere, mettendo al suo posto un uomo Bilderberg, esattamente come ha fatto quando Bersani non è riuscito ad avere una maggioranza e così Letta Bilderberg è risultato perfetto.

Altro che figura al di sopra delle parti, un vero dittatore nascosto sotto la forma del nonnetto rincoglionito.

Ha fatto distruggere le sue intercettazioni con l’ex Ministro Nicola Mancino durante al trattativa Mafia-Stato. Ha messo al Governo banchieri che in 17 mesi hanno massacrato il Paese, senza togliersi neppure un 1 di emolumenti durante l’ennesima fase, finta, di spending review. 

Giorgio Napolitano ci costa più dell’intero apparato della Regina d’Inghilterra, ed i suoi poteri sono tali da aver trasformato una Repubblica Parlamentare in una Repubblica Presidenziale, calpestando Costituzione e cittadini. 

Le contestazioni avute ieri alla Prima della Scala sono ancora poche rispetto a ciò che si merita, ma STRANAMENTE per vederle bisogna cercare sul web, perchè NESSUN organo d’informazione televisiva ne ha parlato: chi detiene quindi il potere sui messi di informazione di massa?

Ma ora sta per uscire un libro, scritto da Ferruccio Pinotti e Stefano Santachiara,  “Tutti i segreti della sinistra”, che racconta con fatti e certezze come le affinità, che non sono passate immuni agli occhi di molti, tra Napolitano e Berlusconi, sembravano più “sintonie che spesso vanno oltre la simpatia personale e il reciproco rispetto che può esistere tra figure che dovrebbero essere radicalmente lontane, sia per storia intellettuale e professionale sia per schieramento politico. Di Berlusconi è nota l’appartenenza massonica, che non si manifesta solo nella documentata affiliazione alla loggia P2 di Licio Gelli, ma anche nel sistema di simboli che costellano il cosiddetto mausoleo di Arcore, la tomba che il Cavaliere ha fatto realizzare per sé e per i propri cari dallo scultore Pietro Cascella. Ma c’è dell’altro.”

Secondo il discusso leader del Grande Oriente Democratico, Gioele Magaldi, non vi sono dubbi che Napolitano sia un “fratello”.

Ma le prove di queste affermazioni arrivano sempre dal sopracitato libro: “abbiamo incontrato un’autorevole fonte, che ha chiesto di rimanere anonima: un avvocato di altissimo livello, cassazionista, consulente delle più alte cariche istituzionali, massone con solidissimi agganci internazionali in Israele e negli Stati Uniti, figlio di un dirigente del Pci, massone, e lui stesso molto vicino al Pd. La prima indicazione che ci offre è interessante: «Già il padre di Giorgio Napolitano è stato un importante massone, una delle figure più in vista della massoneria partenopea».

Avvocato liberale, poeta e saggista, Giovanni avrebbe trasmesso al figlio Giorgio (notoriamente legatissimo al padre, che ammirava profondamente) non solo l’amore per i codici ma anche quello per la «fratellanza». A rafforzare la connotazione «muratoria» dell’ambiente in cui è nato Giorgio Napoletano c’è un altro massone, amico fraterno del padre: Giovanni Amendola, padre di Giorgio, storico dirigente del Pci e figura fondamentale per la crescita intellettuale e politica dell’attuale presidente della Repubblica. Va detto che l’appartenenza alla massoneria non è un reato, anzi, molto spesso figure a essa legate sono diventate protagoniste di rivoluzioni innovatrici e progressiste. Il fatto indiscutibile, però, è che il legame massonico rappresenta una modalità di gestione del potere di cui poco si conosce e che è spesso determinante per capire i fatti più recenti della politica italiana e internazionale.

La nostra fonte ha conosciuto bene e conosce Napolitano, cui si considera molto vicino. «Tutta la storia familiare di Napolitano è riconducibile all’esperienza massonica partenopea, che ha radici antiche e si inquadra nell’alveo di quella francese. Per molti aspetti Napolitano è assimilabile a Mitterrand, che era anche lui massone. Si può stabilire un parallelismo tra i due: la visione della république è la stessa, laica ma anche simbolica. L’appartenenza massonica di Napolitano è molto diversa da quella di Ciampi, fa riferimento a mondi molto più ampi. Ciampi inoltre è un cattolico. Napolitano si muove in un contesto più vasto.”

Quindi, un sunto.

Abbiamo un Presidente Massone, che evidentemente cura gli interessi dei “fratelli” e non dei suoi cittadini, e l’ha dimostrato più volte. Un Premier che è del Club Bilderberg, dove banche e speculatori la fanno da padroni. Stiamo per diventare figli di Troika come la Grecia, per la quale ormai non c’è più speranza. Sottomessi al nazismo Merkeliano.

Diciamolo in tre parole: SIAMO NELLA MERDA.

O ci si sveglia ora, o la Grecia non è un miraggio tanto lontano.

Per il momento, Vi regalo il video di come è stato accolto ieri Napolitano alla Scala. Purtroppo l’impeachment urlato da Grillo dovrebbe essere votato dal Parlamento, quindi impossibile da realizzare. Tranne che con un colpo di Stato.

http://www.youtube.com/watch?v=71jVVHXpcq8

n/a