Siamo proprio sicuri che i pedaggi autostradali siano legittimi? Io dico no, e studiando la storia dell’Iri vi spiego il perchè.

Perchè pagare i pedaggi autostradali?

 

L’altra sera alla Gabbia di Paragone hanno mostrato quanti sono stati i primi utili semestrali delle società che gestiscono la rete autostradale: una su tutti, il Gruppo Benetton, che nei primi sei mesi dell’anno, grazie ai pedaggi autostradali perennemente aumentati (e lo saranno anche nel 215), ha realizzato utili netti dichiarati per 386 milioni di euro.

Sarebbe interessante sapere di questo importo, quanto i Benetton decideranno di versare in tasse, o se useranno lo strumento saldo-stralcio (di cui parlerò in altro articolo e che è disponibile, udite udite, per ogni singolo contribuente) e perchè lo stesso gruppo, proprietario della rete Autogrill, nonostante utili del genere, stia portando avanti un piano drastico di riduzione del personale. Ah, tra parentesi il Gruppo Benetton è coinvolto nello scandalo LuxLeaks di cui ho parlato qualche giorno fa, ben prima che i media fossero costretti a farlo.

Certo che devono essere particolarmente grati a Prodi, che gli ha svenduto nello smantellamento Iri, la gestione della parte più importante della rete autostradale, ed a Berlusconi, che ha consentito l’aumento deciso univocamente dei pedaggi autostradali stessi, portandolo a cifre assurde: negli ultimi tre anni, secondo l’Istat, l’aumento medio è stato attorno al 12% su tutta la rete. Bazzecole, vero?

Specie considerando che un decreto legge del 2010 citava testualmente: Dal 1° luglio decorrono le maggiorazioni tariffarie sulla intera rete autostradale a pedaggio, che non sono a beneficio delle concessionarie. Le misure riguardano: una maggiorazione tariffaria, al netto dell’Iva, su tutta la rete autostradale a pedaggio di 1 millesimo di euro a chilometro per le classi di pedaggio A e B (auto, moto, veicoli a 2 assi etc.) e 3 millesimi di euro a chilometro per i veicoli pesanti (classi 3, 4, e 5); una maggiorazione tariffaria forfetaria, sempre al netto dell’Iva, di 1 euro per le classi di pedaggio A e B e di 2 euro per quelle superiori (classe 3, 4 e 5) presso i caselli di esazione delle autostrade a pedaggio che si interconnettono con le autostrade e i raccordi autostradali in gestione diretta Anas. Queste maggiorazioni tariffarie non potranno, comunque, essere superiori al 25% del pedaggio altrimenti dovuto.

Quanto dovremmo aspettarci ancora di aumenti? Sempre pronti a pagare popolo bue?

Allora, facciamo un passo indietro nella storia della costituzione della società Autostrade per l’Italia: i pedaggi autostradali avevano un compito ben specifico. Finanziare la costruzione delle autostrade e mantenerne la funzionalità.

Vi chiedo, a fronte di tutti gli aumenti che ci sono stati propinati, quante nuove autostrade sono state costruite? E com’è lo stato di manutenzione di quelle esistenti, piene di buche, con caselli che spesso si bloccano e non funzionano, nessun tipo di automazione se non il sistema Tutor per multarci, nessun tipo di evoluzione.

Anzi no, sono stati introdotte le casse automatizzate, per ridurre ancora di più i posti di lavoro. Bella trovata.

Perchè allora continuiamo a pagare i pedaggi autostradali?

In effetti, non dovremmo.

Come dicevo, torniamo indietro nella nostra storia, e più precisamente all’Iri, dagli anni 30 agli anni 70.

In uno dei suoi ultimi scritti, Joseph A. Schumpeter (1883-1950) riconosce che l’imprenditore va oltre la singola personalità: l’imprenditore e le sue iniziative possono appartenere a un’entità collettiva. Schumpeter fa l’esempio del ministero dell’Agricoltura americano, con la sua opera di risanamento del territorio dopo la grande crisi (R. Swedberg, Joseph A. Schumpeter. His life and work, 1991, trad. it. 1998, p. 189). L’Istituto per la ricostruzione industriale (IRI) appare in tali vesti sin dalle origini. Fondato nel gennaio del 1933 per tagliare i legami fra le maggiori banche del Paese e le grandi imprese industriali, si trovò a possedere più del 40% del capitale azionario italiano.

L’IRI era considerato dai suoi ideatori un ente provvisorio che, una volta risanate le imprese, avrebbe dovuto privatizzarle (‘smobilizzarle’, nel linguaggio di allora). Tutto ciò non fu possibile poiché dovette rilevare aziende nei cosiddetti core sectors della seconda rivoluzione industriale: la siderurgia, la cantieristica, la meccanica pesante, l’elettromeccanica, l’industria elettrica. Si trattava di settori ad alta intensità di capitale, con imprese non solo costose da acquistare, ma, soprattutto, da gestire. In Italia non vi erano né capitali disponibili per questo tipo d’investimento, né capitalisti coraggiosi in grado di indebitarsi e di correre rischi in nome dell’interesse nazionale. Per questo, nel 1937, l’IRI venne dichiarato ente permanente e lo Stato italiano divenne il più grande proprietario d’industria in Europa, dopo l’Unione Sovietica.

Avere evocato questo Paese, il primo Paese socialista, può indurre a ipotizzare un tentativo di nazionalizzazione della nostra economia, sottratta al mercato e sottoposta a una serie di prezzi amministrati. Ma il fondatore dell’IRI aveva tutt’altre idee: Alberto Beneduce (1877-1944) apparteneva a quell’élite meridionale ‘illuminista’, seguace dell’intellettuale e uomo politico lucano Francesco Saverio Nitti (1868-1953), che riteneva l’industrializzazione l’unico modo per risolvere la questione meridionale. Con Nitti, Beneduce aveva fondato l’INA (Istituto Nazionale delle Assicurazioni) e, in seguito, creerà alcune istituzioni finanziarie, come il CREDIOP (Istituto di CREDIto per le OPere Pubbliche) e l’ICIPU (Istituto di Credito per le Imprese di Pubblica Utilità), che si baseranno su un sistema di obbligazioni garantite dallo Stato; Beneduce utilizzerà lo stesso sistema per l’IRI, che rappresenterà nella storia italiana un’avventura imprenditoriale, nonostante un autorevole studioso inglese, Andrew Shonfield, l’abbia definito come «la più pazza nazionalizzazione della storia»

Beneduce dovette affrontare un vero e proprio uragano economico e, quindi, non mancarono nella soluzione ai gravi problemi da risolvere elementi di empirismo. Tuttavia, aveva alcune idee di fondo che applicò rigorosamente.

La prima, era che lo Stato si assumesse le sue responsabilità di proprietario e non svendesse le sue aziende. Beneduce privatizzò la Edison e la Bastogi perché per queste fu versato un prezzo congruo, ma respinse la richiesta di Giovanni Agnelli (1866-1945) che, alla testa di una cordata piemontese, voleva acquisire la SIP (Società Idroelettrica Piemonte). L’offerta venne giudicata insufficiente, così come quella dello stesso Agnelli, che voleva acquisire l’Alfa Romeo, e quella di Guido Donegani (1877-1947), che voleva inglobare nella Montecatini la Terni Chimica.

La seconda idea forte di Beneduce era introdurre una politica di razionalizzazione industriale basata sul settore. Alla superholding IRI, posseduta dallo Stato al 100%, facevano riferimento finanziarie settoriali di cui l’IRI controllava almeno il 51%: la STET (Società Torinese per l’Esercizio Telefonico), la Finmare (industria armatoriale) e la Finsider (siderurgia). A queste finanziarie facevano capo le aziende, le quali erano sottoposte ai dettami del codice civile e, quindi, operavano come imprese private.

Il terzo principio, conseguente a quest’ultimo punto, prevedeva che le aziende dovessero essere affidate alle cosiddette mani adatte, ossia a quelle di manager capaci come Ugo Bordoni (1884-1952) per la STET o Agostino Rocca (1895-1978) per la Finsider. Beneduce, che si circondò di collaboratori di prim’ordine come Donato Menichella (1896-1984), Francesco Giordani (1896-1961), Giuseppe Cenzato (1882-1969) e Pasquale Saraceno (1903-1991), risolse quindi brillantemente il nodo storico di un Paese che voleva industrializzarsi, ma al quale, come abbiamo detto, mancavano capitali e imprenditori.

La svolta si verificò nel 1948, con la nascita della finanziaria dell’IRI destinata a raggruppare le partecipazioni pubbliche dell’industria meccanica: Finmeccanica, anch’essa coinvolta nello scandalo Luxleaks.

L’Autostrada del Sole

Se è certamente da segnalare, fra le attività innovative dell’IRI, l’assunzione del controllo della RAI (Radiotelevisione Italiana) proprio quando questa iniziava a realizzare gli impianti di televisione e, nel campo del trasporto aereo, la creazione dell’Alitalia nel 1957 (L’istituto per la ricostruzione industriale – Iri, 1998), l’impegno dell’Istituto si rivelò di particolare importanza nella costruzione delle grandi reti, anzitutto quella autostradale.

All’inizio degli anni Cinquanta divenne evidente in tutta la sua gravità il problema delle infrastrutture di collegamento all’interno del territorio nazionale. Se l’Italia poteva contare su un’adeguata rete ferroviaria, i collegamenti stradali erano del tutto insufficienti. Nel 1940, su 20.000 km di strade, il 30% era senza pavimentazione. Quanto alla rete autostradale, erano in esercizio solo alcuni tratti, la Milano-Laghi, la Milano-Brescia, la Firenze-Mare, l’autocamionabile Genova-Serravalle. Era inesistente, però, un piano organico in questo campo.

Nel 1954, mentre stava entrando in produzione la prima utilitaria italiana, la Fiat 600, con il contributo della stessa Fiat, dell’ENI (Ente Nazionale Idrocarburi), della Pirelli e dell’Italcementi, nasceva la SISI (Sviluppo Iniziative Stradali Italiane): la società di engineering formulò un progetto per il tratto autostradale fra Milano e Napoli, poi donato allo Stato. Dopo aver constatato l’inadeguatezza dell’ANAS (Azienda Nazionale Autonoma delle Strade Statali) a raggiungere un risultato del genere, nell’aprile del 1956 il governo affidò alla tecnocrazia dell’IRI il compito di costruire l’asse portante del piano autostradale nazionale, ovvero l’Autostrada del Sole Milano-Napoli. Il presidente dell’Iri Aldo Fascetti (1901-1960) offrì a Fedele Cova (1904-1987), amministratore delegato della società dell’IRI Cementir (Cementerie del Tirreno), il ruolo di amministratore delegato della Concessioni e costruzioni autostrade SpA, con cui la holding pubblica dava inizio al proprio impegno in campo autostradale.

La società Autostrade poteva in realtà avvalersi solo di un progetto, quello della SISI, fondato su ipotesi non verificate e, in larga parte, già invecchiate; ma il problema più grave era dato dalla mancanza di finanziamenti adeguati e di capacità manageriali specifiche. Cova risolse pragmaticamente questi problemi, organizzando con i manager più importanti della società un viaggio negli Stati Uniti per aggiornarsi sulle più moderne tecnologie di costruzione e gestione delle autostrade. Il viaggio, che si svolse nella seconda metà del 1956, fu utilissimo per impadronirsi dei sistemi tecnici gestionali e finanziari che presiedevano all’esercizio delle turnpikes, le autostrade a pedaggio statunitensi. In Italia, Cova puntò quindi a riproporre il modello americano, dalla segnaletica all’impiego di guardrail, dall’eliminazione degli incroci a raso alle tecniche di esazione dei pedaggi, alla manutenzione, al controllo generale attuato tramite un elaboratore centrale Remington Rand comprato negli Stati Uniti. Si decise, inoltre, la costruzione di aree attrezzate di sosta per i rifornimenti, che venne lasciata in concessione alle società petrolifere per evitare un impegno diretto della società Autostrade.

Cova approntò per la società Autostrade un’organizzazione che faceva perno su una Direzione generale da cui dipendevano le Direzioni centrali (Amministrazione e Affari generali, e Direzione tecnica) e quelle periferiche (a loro volta articolate in Direzione d’esercizio – una volta entrata in funzione l’autostrada – e Direzione lavori, da cui dipendevano le imprese di costruzioni); all’inizio del 1957 i principali tratti del percorso erano già stati appaltati. Alla riorganizzazione si affiancò una vivace campagna di promozione: per l’opinione pubblica la nuova autostrada assunse un valore anche simbolico di volano per lo sviluppo locale e questo facilitò il rapido avanzamento dell’opera, che richiedeva l’espropriazione di terreni e decreti d’urgenza per il cambiamento di destinazione delle aree interessate. Il compimento dell’autostrada fu rapidissimo. Nel 1958 giunse a Parma, nel 1959 a Bologna, nel 1960 a Firenze e, infine, nel 1964 a Napoli.

Perchè questo excursus storico?

L’IRI è stato senza dubbio uno dei protagonisti di quella stagione straordinaria che è stata definita miracolo economico. Il responsabile delle Relazioni esterne dell’Istituto, Franco Schepis, scriveva alla fine degli anni Sessanta:

Un turista straniero arriva in Italia con un aereo dell’Alitalia? Alitalia è la compagnia aerea dell’Iri. Sbarca a Genova da uno dei più bei transatlantici del mondo come la Michelangelo o la Raffaello, la Cristoforo Colombo o la Leonardo da Vinci? Sono dell’Iri. Noleggia una macchina veloce ed elegante come un’Alfa Romeo? È dell’Iri. Per uscire da Genova percorre la prima strada sopraelevata costruita in Italia? È dell’Iri, ed è stata realizzata con l’acciaio della Finsider (Iri) e il cemento della Cementir (Iri). Uscito dalla città prende un’autostrada della più estesa rete esistente in Europa? È dell’Iri. Si ferma per pranzare in un autogrill? È dell’Iri. Assaggia i prodotti della Motta e dell’Alemagna? Sono aziende Iri. Dopo pranzo, telefona a qualcuno della sua città, usando la prima teleselezione integrale da utente del continente? È una linea della Sip, cioè dell’Iri. Arrivato a destinazione, deve cambiare della valuta? Va in una delle principali banche italiane (la Banca Commerciale Italiana o il Banco di Roma o il Credito Italiano)? È anch’essa dell’Iri.

E fino a qua, ci siamo tutti. Come tutti sanno come Romano Prodi ha smantellato e svenduto tutte le proprietà nazionali dell’Iri.

Ma sono convinta che ben pochi sanno cosa l’Iri, ai tempi della costruzione della rete autostradale, aveva deciso.

Da sempre, le autostrade sono state una sorta di gallina dalle uova d’oro.

Eppure l’Iri dei tempi migliori aveva deliberato un modello teorico della concessione, secondo il quale gli introiti tariffari dovrebbero consentire al concessionario di ottenere una “congrua” remunerazione e di ammortizzare nel tempo il capitale investito sino ad azzerarlo allo scadere della convenzione, le convenzioni di moltissime concessionarie avrebbero dovuto essere scadute già da molto tempo, per avvenuto integrale rimborso del capitale investito.

Questo significa che i pedaggi autostradali avrebbero dovuto subire, una volta recuperato il capitale investito, una riduzione verticale.

Una delle ragioni per cui questo non è avvenuto sono le rivalutazioni monetarie del 1976 e 1983 grazie alle quali le concessionarie hanno enormemente “gonfiato”, nei loro bilanci, il valore contabile dei beni gratuitamente devolvibili (cioè il capitale investito nell’autostrada).

Gli investimenti erano stati finanziati pressoché interamente a debito, da tutte le concessionarie. A fine 1975 le 21 concessionarie avevano un capitale proprio (equity) di 115 miliardi di lire, a fronte di 5.100 miliardi di investimenti.

Il nuovo sistema tariffario (price cap) è partito poi stabilendo norme per gli incrementi di tariffa, ma accettando per buoni i livelli tariffari esistenti, senza verifica della loro congruità rispetto al capitale netto investito residuo di ciascuna.

La maggior valutazione dell’’autostrada (o del ramo d’azienda cui è intestata la concessione) si giustifica solo perché produce “extraprofitti”, cioè profitti molto superiori a quanto sarebbe “congruo” rispetto ai valori storici. Il maggior valore viene stimato attualizzando questi “extraprofitti” futuri attesi. Se si riconosce alla società il diritto a vedersi “rimborsare” (e remunerare) il maggior valore per il solo fatto di averlo iscritto a bilancio, in pratica si raddoppiano gli extraprofitti: oltre a pagarli come flusso si pagano anche per il loro valore attuale!

I pedaggi hanno rappresentato una vera e propria imposta occulta, ovviamente a carattere regressivo, cioè non equa perché non colpisce i più ricchi, ma semplicemente coloro che sono costretti a utilizzare la macchina, magari i pendolari. Con conseguenze per l’inflazione, legate all’aumento del trasporto merci, ragguardevoli.

Le autostrade furono costruite con denaro pubblico e ripagate dagli utenti, per motivi di pubblica utilità. Il fatto che ancora oggi non ci siano autostrade in Basilicata, da Taranto a Reggio Calabria, o in Sardegna, lascia supporre che le nostre autostrade abbiano essenzialmente lasciato inevasi i bisogni sociali di mobilità a esse connesse.

In linea di principio, tutti questi soldi esatti dallo Stato potevano ancora tornare utili alla costruzione di scuole e asili. Invece, nel 1999, Autostrade per l’Italia, che rappresentava il 50% della rete e il 70% del traffico, venne ceduta ai privati, in blocco. Un vero peccato, se si pensa che Autostrade, fondata da Iri nel 1950, aveva una redditività altissima.

La disastrosa situazione finanziaria delle imprese concessionarie e la necessità di risolvere il contenzioso maturatosi negli anni ’80 hanno reso necessario un processo di riassetto del settore autostradale.

Tale processo ha avuto inizio nel 1992, con un provvedimento legislativo inserito nella legge 498/92, la quale ha demandato al Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica (Cipe) l’emanazione di direttive per la concessione della garanzia dello Stato e per la revisione delle convenzioni e dei pedaggi autostradali.

Alla luce di tale mandato, nella delibera del 21 settembre 1993, il Cipe ha stabilito i criteri per la revisione di tutte le convenzioni e per la determinazione dei pedaggi autostradali. Questi ultimi, determinati sulla base dei medesimi criteri applicati alle tariffe dei pubblici servizi, devono venir stabiliti in sede di rilascio o di revisione della concessione sulla base di un Piano Finanziario presentato dall’impresa concessionaria, e devono esser sottoposte a verifica quinquennale, a meno che intervengano scostamenti significativi rispetto ai parametri presi a riferimento nei Piani Finanziari.

Inoltre, in sede di revisione delle convenzioni, si sarebbero dovuti verificare gli eventuali squilibri di natura economico-finanziaria derivanti dai mancati adeguamenti tariffari e risolvere quindi l’eventuale contenzioso fra ente concedente ed impresa concessionaria.

Autostrade pagava a Iri un dividendo che, dagli iniziali 16 miliardi di lire, era salito a 140,5 milioni euro nel ’99. Lo Stato, allora, si trovò all’improvviso nella condizione di dover fare il regolatore; fu istituito un sistema, detto del price cap, che doveva impedire al privato di fare “superprofitti”, la qual cosa era molto probabile dato che le strade sono un monopolio naturale e Autostrade spa non aveva concorrenza.

Il Cipe, contestualmente, fissava una tariffa ottimale, che garantisse una remunerazione congrua del capitale, al netto degli investimenti che il concessionario doveva fare, liberando i consumatori dal rischio di pagare troppo. Ma, in realtà, il concessionario continuava a fare superprofitti come prima l’Iri ricavava rendite: Autostrade, nel periodo 1998-2002, ad esempio, fece investimenti sulla rete molto inferiori a quanto il governo attuale sicuramente voleva semplificare, ma non avendo potuto mettere mano al cuore del problema ha stabilito una soluzione che potrebbe rilevarsi discutibile.

Il sistema tariffario italiano è chiamato price cap ma in realtà è ben lontano dall’’applicare tale modello regolatorio.

Mentre si regolano le variazioni delle tariffe non si è proceduto a determinare i livelli congrui delle tariffe iniziali sulla base dei capitali netti residui di ciascuna commissionaria; non si specifica che l’’obiettivo della regolamentazione sia quello di pervenire a una remunerazione “congrua” del capitale netto investito (Rab – Regulated Asset Basis), né che si debba riportare la redditività al livello “congruo” alla fine di ogni quinquennio (“claw back” dei profitti), aspetto che è invece la caratteristica essenziale della regolamentazione tramite price cap.

Attribuire poi il “rischio traffico” ai concessionari non introduce alcun incentivo all’’ efficienza ma si è solo rivelato una fonte di “extraprofitti” per le prudentissime previsioni inserite nei piani finanziari.

E’ evidente che la nuova regolamentazione tariffaria è stata pensata principalmente, se non esclusivamente, al fine di massimizzare il ricavo della privatizzazione di Autostrade.

Nel complesso, i risultati conseguiti dalla regolazione delle autostrade italiane dal 1997 ad oggi sembrano davvero fallimentari. Non si ha evidenza di miglioramenti significativi nell’’efficienza di costo, al di là dell’’applicazione di sistemi automatici di esazione già avviati nel periodo precedente . Gli investimenti previsti, sulla base dei quali le concessionarie ottennero nel 1999 lunghe proroghe delle concessioni (vedasi paragrafo successivo) e incrementi di tariffa, non sono stati realizzati se non in piccola parte. Le concessionarie hanno invece registrato enormi extraprofitti, cioè rendimenti sul capitale investito largamente eccedenti non solo rispetto ad un ragionevole Wacc ma anche rispetto agli stessi generosi livelli previsti nei piani finanziari.

La costruzione della rete autostradale italiana è stata finanziata pressoché interamente a debito grazie anche alla garanzia con la quale lo Stato assicurava i debiti delle concessionarie perché, sino alla fine degli anni ’90, quasi tutte erano considerate “pubbliche”. Le concessioni erano basate sulla logica della tariffa-remunerazione. I pedaggi dovevano servire a coprire i costi operativi e l’ammortamento dei debiti con i quali veniva finanziato l’investimento. La legge 463 del 1955 prevedeva che l’eventuale eccedenza dei ricavi oltre una contenuta remunerazione del capitale investito venisse devoluta allo Stato; questo principio veniva ribadito e rafforzato ancora nel 1961 con la legge 729 ed in leggi successive, sino al 1993.

Finito il grosso degli investimenti a metà anni ’70, dopo 15-20 anni molte concessionarie erano già state in grado di rimborsare i debiti finanziari e di ottenere una buona remunerazione sul capitale proprio versato (di regola modestissimo). Molte convenzioni avrebbero quindi potuto scadere negli anni ’90 per avvenuto integrale recupero del capitale investito. Ma quasi due terzi della rete apparteneva allo Stato tramite l’’Iri, e l’’Iri aveva bisogno di tutto l’ossigeno che poteva venirgli dalla Autostrade.

E’ questo che spiega o giustifica l’incredibile generosità dello Stato-regolatore, che proroga “gratuitamente” concessioni in scadenza, mantiene tariffe elevate e crescenti, accetta l’’ammortamento in tariffa delle rivalutazioni monetarie.

Per massimizzare il ricavo dalla cessione di Autostrade la sua convenzione viene prorogata  (in due tempi) di 35 anni, e lo Stato non può esimersi dal concedere generose proroghe anche alle altre concessionarie allora considerate “pubbliche”, anche se oggi si definiscono “private” e vantano i loro diritti contrattuali dimenticando tutti i “regali” ricevuti in passato proprio in quanto possedute da province e comuni.

Basta dare un’occhiata ai bilanci delle concessionarie italiane per vedere che il valore residuo dell’autostrada è ormai generalmente una quota modesta dell’’attivo, e in molti casi si è quasi azzerato, pur dopo le rivalutazioni monetarie e la capitalizzazione degli interessi e di ogni altra possibile spesa .

Se si applica la logica della tariffa-remunerazione i pedaggi dovrebbero dunque essere drasticamente ridotti o azzerati.

Si potrebbe anche applicare la tariffa-scommessa, come in Francia, ma gare per l’assegnazione delle concessioni con questa logica non sono mai state fatte, né le concessionarie hanno mai pagato il “biglietto” per questa scommessa. Manca dunque un’origine storica per la legittimità dei diritti che oggi esse accampano.

Quasi tutte le concessionarie, avendo rimborsato ormai i debiti finanziari, si sono trovate, già a partire dagli anni ’90, con flussi di cassa rilevanti e stabilmente crescenti che non avevano opportunità di impiegare nella costruzione di nuove autostrade.

CONCLUSIONI IN SOLDONI?

Quando si è iniziato a costruire la rete autostradale, i pedaggi venivano considerati una forma di remunerazione e di rientro del capitale investito, e fino a qua nessun problema.

Il problema è che ormai le Concessionarie NON ESEGUONO PIU’ alcun tipo di lavoro o miglioramento autostradale, tagliano i posti di lavoro, grazie al price cap possono permettersi di aumentare i pedaggi a proprio piacimento, nonostante il capitale sia ampiamente remunerato e quindi proprio i pedaggi non dovrebbero più esistere.

Complimenti a Prodi, Benetton & Co. per aver ladrato così bene una delle fonti maggiori di guadagno dello Stato Italiano. 

Quei denari avrebbero potuto essere utili per servizi di welfare, invece oggi diventano extraprofitti portati in Lussemburgo, esentati da tasse, con riduzione continua di personale e di costi.

Esiste qualche giurista che mi sa dire perchè io cittadina devo pagare questi pedaggi?

NON PAGHIAMO PIU’ NULLA, SE IL POPOLO E’ UNITO IL SISTEMA CROLLA, LO VOLETE CAPIRE O NO?

Riprendiamoci le concessioni che sono dei cittadini, perchè pagate con i loro pedaggi, e se proprio dobbiamo considerare un pedaggio da versare, che sia equo e soprattutto utilizzato per uno Stato Sovrano e Sociale.

Denuncia di massa contro lo Stato per istigazione al suicidio.

Il promotore è l’Avvocato Antonio Grazia Romano, laureato in Giurisprudenza nell’ anno 1978, presso l’Università Federico II di Napoli con una Tesi in Scienze delle Finanze e Diritto Finanziario.

A suo parere, l’Italia  di quell’epoca aveva necessità di accompagnare la Lira nel progetto della costituzione di una moneta comune adottando il Piano Pandolfi, con lo scopo di renderla stabile in maniera tale da non generare grane sia all’interno della Comunità Europea che nei confronti degli Stati partecipanti.

Ma  il sistema monetario europeo (SME) si è realizzato NON con una moneta reale bensì attraverso un meccanismo con il quale alla Lira italiana veniva consentito una oscillazione fino al 6% sia in negativo che in positivo in relazione al cambio.

Costituito lo SME, che consentiva alla lira di oscillare del 6%, tutto andò bene sino al 1992.

Da quella data la fortissima rivalutazione del marco tedesco non consentì all’Italia di rimanere all’interno dello SME.

Tale apprezzamento del marco tedesco produsse effetti paradossali: addirittura gli stessi italiani potevano andare a cambiare 20 milioni di lire in 20mila marchi ed il giorno dopo guadagnarci al cambio.

Nel settembre 1992 l’Italia uscì definitivamente dal Sistema Monetario Europeo, con riguardevoli  ritardi: l’allora presidente del consiglio Amato non avrebbe dovuto perdere tempo, invece ne perse così tanto che la cosa si riflesse con perdite enormi sui conti pubblici dell’Italia.

Infatti Giuliano Amato lasciò che la speculazione da marzo del 1992 a settembre 1992 potesse aggredire le nostre valute pregiate sino a svuotare la banca d’Italia dell’ultimo dollaro, mandando in fumo gli ultimi miliardi di lire in valuta pregiata.

Per far capire a chi legge quanto deleterio fu il tergiversare di Amato basti considerare che a gennaio 1993, come il franco francese andò sotto attacco speculativo, la Francia decise di uscire dallo SME in appena 15 giorni, mentre l’Italia ne uscì dopo sei mesi.

Questa permanenza prolungata si tradussa in una manovra allucinante, che ancora tutti ricordiamo, del costo di 90mila miliardi di lire, compreso il furto studiato in una nottata infame da Amato stesso: un prelievo forzoso dai conti correnti dei risparmiatori italiani.

Ovviamente non avendo più valuta pregiata nelle nostre casse, il FMI intervenne facendo prestiti in dollari ed altre divise pregiate. E lo SME a Gennaio 1993 fu definitivamente accantonato.

Fu allora, dopo il 1993, che le Nazioni che avevano aderito allo SME dichiararono la volontà di giungere ad una moneta unica europea che desse definitiva stabilità al mercato dei cambi. Era intenzione comune che detta moneta unica riuscisse a far crescere le economie deboli del Sud Europa.

Nell’arco di qualche anno si vide la sciagurata nascita dell’Euro, presentato da Prodi con parole difficili da dimenticare, specie in questo periodo: “Con l’ EURO lavoreremo un giorno in meno,  guadagnando come se lavorassimo un giorno in più”.

Ma mentre il progetto di fondo dello SME, per errato che fosse, concepiva comunque una moneta unica dei popoli europei ed una banca pubblica unica comune degli Stati europei, si arrivò incomprensibilmente alla realizzazione di una banca privata (l’attuale BCE) e ad una moneta privata (l’attuale euro).

Questo  stravolgimento ha messo la Banca Centrale Europea (BCE) nella condizione di cane da guardia dell’inflazione degli Stati membro. Essa regola l’inflazione sui flussi di denaro. Questo è l’unico suo compito.

Ogni singola banca centrale di uno stato possiede una quota della BCE, e la maggior parte delle banche centrali sono private perché il capitale sottoscritto è in quota alle banche dei singoli Stati che sono anch’esse private.

Come tutti ormai sappiamo, la Banca d’Italia è totalmente in mani private, fatta eccezione per un 5% del capitale di proprietà dell’INPS.

Nel 1981 si ebbe i distacco tra la Banca d’Italia ed il Ministero del Tesoro, con la conseguenza che la Banca d’Italia da allora non è più tenuta all’acquisto dei titoli di Stato e lo Stato italiano perse la propria sovranità monetaria, con l’aggravio di doversi finanziare sui mercati finanziari esteri, creando una voragine nel debito pubblico, che dal 56% sul Pil è arrivato oltre al 110%, a causa degli interessi passivi che lo Stato Italiano paga a speculatori, privati risparmiatori e banche.

In sintesi, fino al 1981 il debito pubblico era un deficit statale ovvero NON un debito vero e proprio MA la quantità di moneta che lo Stato stampava per sé su cui non pagava interessi in quanto rivendeva le cedole alla banca d’Italia stessa. Invece dal 1981 in poi lo Stato Italiano ha pagato gli interessi sia ai finanziatori sia alle banche private.

Oggi tutto funziona allo stesso modo, ovvero: lo Stato Italiano paga sempre gli interessi passivi sul debito pubblico IN EURO e non più IN LIRE e ciò determina un debito pubblico in valuta straniera che lo stato italiano ed i cittadini non potranno ai più pagare e che è destinato solo a crescere.

Questa è storia.

Premesso che c’è questo disegno della lobby finanziaria per schiavizzare e cinesizzare i popoli occidentali, c’è da considerare anche che stiamo vivendo in una fase in cui “i potenti” si sentono liberi di provocare sfacciatamente crisi ad hoc, tanto nessun tribunale darà mai loro la caccia.

Basti considerare che fino al 2007 le banche continuavano ad erogare mutui oltre le possibilità di restituzione dei singoli delle famiglie e delle imprese ben consapevoli del fatto che solo una minima parte dei soldi erogati sarebbe ritornata alla fonte. Addirittura abbassarono i criteri di allarme pur di dare soldi all’ultimo arrivato e soddisfare tutte le richieste.

Le banche sapevano perfettamente cosa stavano creando, ovvero le condizioni della peggior crisi mai vissuta, tanto è vero che improvvisamente dal 2008 in poi le stesse banche, pianificando tutto a tavolino, hanno cominciato la stretta al credito, uccidendo l’economia reale ed essendo loro stesse responsabili, insieme allo Stato inerme e passivo, della morte di centinaia di imprenditori.

Depressione. Un soggetto depresso è più facilmente manovrabile. 

Gli stessi Stati entravano in questo progetto di sottomissione all’usura internazionale ed i suoi nuovi rappresentanti hanno fatto di tutto per far intendere alle popolazioni che i soldi per finanziare il debito pubblico erano finiti a causa della crisi.

Ed ecco che la popolazione vinta ed umiliata ha ceduto alla oscena richiesta delle supertasse (imu, tares, ecc.), tutte manovre che hanno schiacciato il potere di acquisto della classe lavoratrice ed alienato quello del popolo dei pensionati. E le imprese, strette in questa mortale presa hanno chiuso. E malgrado tutto il debito pubblico è salito ancora.

Da qui la soluzione proposta dall’Avvocato Antonio Grazia Romano.

Analizzando gli ultimi due o tre anni di profonda crisi e verificata la perdita di centinaia di migliaia di posti lavoro e la chiusura di imprese e stante l’ossessivo obbiettivo dei governi Monti e Letta di prelevare dalle tasche del popolo sempre più tasse, il quadro fu chiaro: ciò stava innescando fenomeni recessivi (malgrado i due dicessero di intravedere la fine della crisi ben sapendo di mentire al popolo dato che il debito pubblico è cresciuto di 210 MLD di Euro).

E se considerassimo che è imminente l’impegno assunto da Monti attraverso la sottoscrizione del fiscal compact con cui ci ritroveremo impegnati nella finta battaglia di riduzione del debito pubblico (da ridursi di 50 miliardi di euro all’anno per 20 anni – 1000 miliardi in tutto, una somma inimmaginabile) tirare la somma è facile.

 “Qui sarà una vera e propria carneficina. Nessuno, almeno tra le fasce più deboli e più esposte alla crisi provocata dalla BCE (e quindi anche dalla da bankitalia che è socia al 20%), si salverà. E visto che i provvedimenti a tali fasce deboli tardano ad arrivare e che i suicidi ad oggi hanno superato le 2000 unità, non resta altro da fare che appellarsi con tutta la forza alla Carta Europea dei Diritti dell’Uomo ed aggrapparsi con tutta la forza del Diritto alla nostra Costituzione la quale tutela il bene inalienabile della vita! Qui l’unico istigatore di questi suicidi è uno Stato che invece di tutelare la vita dei propri cittadini fa di tutto perché essi scelgano l’estremo gesto”.

Lo Stato, omettendo di emanare provvedimenti eccezionali per quanti potessero ritrovarsi senza lavoro e senza la propria azienda e quindi senza sostegno economico (pensiamo agli acquisti di F35, alle missioni di guerra, invio di 25 miliardi l’anno al fondo salvastati che l’Italia NON utilizza), si è comportato come un istigatore qualunque dimentico dei doveri costituzionali che impongono ai parlamenti ed ai governi di tutelare innanzi tutto il bene della vita dei propri cittadini.

L’Avvocato Romano ha ritenuto applicabile la fattispecie prevista e punita dal art. 580 Codice Penale a quanti hanno governato i paese dal 2011 in poi ed ai parlamenti che sostenevano detti governi.

Elaborata la possibilità di un esposto querela nei confronti di chi ha governato questa Nazione dal 2011 in poi, si è passati all’azione chiedendo ai cittadini: “Chi di vuoi vuole denunciare lo Stato”?

Bene: in meno di 10 giorni, ben 15mila cittadini italiani, da Nord a Sud, si sono precipitati presso gli organi di polizia  giudiziaria per denunciare lo Stato ed i governi Monti e Letta quali istigatori al suicidio e per aver abbandonato al proprio destino centinaia di miglia di cittadini al loro infausto destino.

Su internet è stato creato l’EVENTO 580 codice penale ed i cittadini possono scaricare gratuitamente il modello di denuncia da presentare direttamente presso la prima caserma dei Carabinieri di zona o Commissariato di PS.

In questo percorso saranno assistiti da un pool di avvocati specializzati che presteranno attività gratuita in quanto motivati sul piano etico e morale dalle continue disattenzioni di questi ultimi due governi i quali, invece di tagliare la spesa pubblica, hanno pensato bene di distruggere il futuro della Nazione.

E’ possibile, in linea teorica, vedere imputati Monti, Letta e ora Renzi.

Scontro durissimo che vedrà da un lato combattere i cittadini inermi e dall’altro i politici cui leggi ad hoc hanno dato privilegi e prerogative e salvacondotti.

La lobby della finanza massonica progetta a medio ed a lungo termine, chiunque abbia un minimo di dimestichezza con queste realtà non può che condividere questa visione. Ma i progetti di queste massonerie sono giunti allo scoperto da pochissimo tempo a questa parte malgrado attenti osservatori, tra i quali l’acutissimo collega Avvocato Marra, avevano smascherato e denunciato in tempi non sospetti legami e sinergie occulte che lavorano da tempo immemore contro il bene comune. Quella di questi mesi la possiamo considerare quale battaglia finale. Ovvero: per la lobby finanziaria la sottomissione degli Stati e dei popoli.

E per gli Stati ed i Cittadini il capovolgimento di questo progetto e la realizzazione – finalmente – di un Europa libera democratica, insomma, dei popoli.

La banca d’Italia è correa di questo disastro socio-economico europeo.

Considerandola una struttura al di fuori dello Stato e che si è appropriata indebitamente del nome Italia, dovrebbe essere confiscata (teoria del signoraggio egregiamente espressa in più documenti scaturiti dal genio del caro collega ed amico Alfonso Luigi Marra) o al limite acquistata e riportata nella sfera pubblica quale organismo di controllo dell’attività bancaria ai sensi dell’Art 47 della Costituzione e di struttura al servizio del Paese e Del Ministero del Tesoro.

“tratto da un’intervista di Andrea Signini”

Io denuncio, e voi?

Amarcord: e questo dovrebbe essere il nostro futuro Presidente della Repubblica?

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Leggere queste parole, le prime pronunciate dalla Iron Lady inglese, che si è battuta contro l’Euro fin dall’inizio, le seconde di Romano Prodi, che ha svenduto l’Italia, fanno riflettere, e tanto.

Partiamo da Margaret Thacher.

Arrivò al potere dopo una gavetta lunghissima, cosparsa anche di episodi che la resero tristemente nota, a causa dei tagli del latte gratuito nelle scuole per i bambini dai 7 agli 11 anni, per poterlo garantire in periodo di crisi, gratuito ai più piccoli. Ma Lei non era tipo da badare alle critiche, e proseguì per la sua strada, con un unico obiettivo: il risanamento della crisi che negli anni 80 imperversava in Inghilterra.

Nel 1980 la Thacher introdusse una riforma, la Housing Act, destinata a cambiare radicalmente il mercato immobiliare inglese, consapevole del fatto che se quel settore funziona, l’economia riprende. Sostanzialmente permise agli affittuari di acquistare l’abitazione dove vivevano usufruendo di agevolazioni fiscali. Il mercato si impennò.

Si occupò personalmente della Guerra delle Falkland, dicendo testuali parole:  “Chi si trova in guerra, non si può far distrarre da complicazioni diplomatiche, deve superarle con ferrea volontà”

Nel 1984 attaccò il potere dei sindacati, rendendoli responsabili di ogni danno cagionato da scioperi non approvati con voto segreto dai lavoratori. Ci furono picchettaggi, ma la Iron Lady non mollò. E non lo fece neppure con l’Europa. Famosissima la sua frase “i want my money back” (voglio i miei soldi indietro), poichè l’Inghilterra forniva il 50% dei finanziamenti che finivano nel mercato agricolo in cui non era particolarmente attiva, a scapito della sua liquidità e a favore solo di altri Paesi, soprattutto della Francia. Ottenne che il Canale della Manica venne costruito TUTTO con capitali privati, tramite una commessa. Privatizzò di tutto, al prezzo di mercato alzato di una percentuale di mancati futuri guadagni ( British Airways, British Gas, British Communication, British Steel, tutte aziende che ad oggi macinano introiti importanti), riducendo così l’esposizione statale e garantendo anche un lauto rimpinguamento delle casse dello Stato. Rivoluzionò persino la borsa, consentendo maggiori speculazioni, e questa a mio parere fu una delle sue uniche pecche. In compenso varò la storica riforma sulla sicurezza negli stadi.

Ed in politica estera, si oppose fermamente ad un’Unione Europea e soprattutto alla creazione della Moneta Unica. E l’ebbe vinta, perchè l’Inghilterra non ha adottato l’Euro, traendone grande vantaggio. Famosi rimangono i suoi tre “no” alle richieste di Jacques Delors, Presidente della Commissione europea, che chiedeva al Regno Unito un avvicinamento politico all’Unione Europea e che sancirono in maniera definitiva l’isolamento britannico dalla comunità.

Ora Vi pongo una domanda: con tutti i suoi eccessi, con riforme all’epoca contrastate ma i cui frutti si vedono oggi, con l’Inghilterra che ha mantenuto la sua sovranità monetaria, con tutto quello che avete letto, la Iron Lady potrebbe essere paragonata ad una dittatrice, che ha però pensato solo al bene dei suoi cittadini. Non vorreste un personaggio così per risanare l’Italia?

Parliamoci chiaro, un dittatore in Italia già esiste sotto mentite spoglie, si chiama Giorgio Napolitano, Presidente della Repubblica e inginocchiato solo ai desideri dei poteri forti.

Girano voci preoccupanti, che vorrebbero come suo successore Romano Prodi.

Mentre per la Thatcher si ricordano frasi e citazioni importanti, io non mi tolgo dalla mente la sua più nota “faremo vedere i sorci verdi alla Francia”. Un linguaggio certamente degno di una persona come lui.

Ripercorriamone brevemente la storia, sempre facendo mentalmente un confronto con la Thatcher.

Romano Prodi, economista assolutamente incompetente, consigliere di Goldman Sachs, braccio destro di George Soros, tanto da organizzargli nel 1995  una laurea honoris causa, fingendo di dimenticarsi che lo speculatore solo tre anni prima aveva messo in atto vergognosi attacchi speculativi contro la lira ed il sistema monetario europeo.

Non riesco a capire come Romano Prodi, esclusivamente negli ambienti di sinistra e di potere, possa godere di una fama completamente irreale, specie alla luce della totale incompetenza dimostrata, e come, senza pudore, non decida di dedicarsi al mestiere di nonno levandosi dalle palle, ma pretenda ancora di poter avere incarichi costituzionali di grande pregio in Italia.

Certo, se fosse il successore di Napolitano (lui o l’ancor peggio Mario Draghi), sarebbe un segnale evidente che in Italia davvero o si fa una rivoluzione che parte dai cittadini, oppure continueremo ad essere colonizzati da figure indegne di essere chiamati italiani.

Torniamo a Prodi ed a quello che ha fatto in Italia.

Ottavo di nove fratelli, casualmente tutti diventati docenti universitari, la carriera di Prodi inizia come assistente di vari docenti, vantandosi di essersi specializzato nelle piccole e medie imprese, dimenticando però una parola, distruzione.

Ovviamente parte la sua carriera politica dalla Democrazia Cristiana (morto il partito, ma tutti gli appartenenti, a parte qualche capro espiatorio di mani pulite, si sono riciclati per bene, Renzi su tutti); durante il IV Governo Andreotti produsse la “legge Prodi“, con lo scopo di consentire allo Stato in amministrazione straordinaria di intervenire sulle grandi aziende in crisi. Spadolini lo nomino’ a capo dell’Iri. E qui cominciano i veri danni.

Attraverso le privatizzazioni che Prodi portò avanti come presidente dell’Iri negli anni novanta, distrusse e svendette settori portanti dell’industria italiana. Quello agro-alimentare, acquisito da gruppi olandesi, inglesi ed americani. La siderurgia di Stato, Italtel. Le telecomunicazioni, privatizzazione scandalo di Telecom. Ed ancora Eni, Imi, parte di Enel.

Credete forse Prodi tanto intelligente da portare avanti una simile impresa colossale? No, serve un grande gruppo di potere: Bildelberg, Rothschild, Goldman Sachs… Prendiamo allora quest’ultimo, una cosiddetta merchant bank  presente al famoso summit del Britannia, dove si decise lo smantellamento dello Stato-imprenditore italiano; ha poi ricoperto un ruolo essenziale nel processo di privatizzazione delle partecipazioni statali, favorendo l’intervento delle grandi multinazionali sue clienti privilegiate e potendo contare per questo sull’amicizia di importanti uomini di potere nostrani, come Mario Draghi, che è stato fino all’altro ieri vicepresidente Goldman per l’Europa, e poi proprio il Romano Prodi, a più riprese consulente di livello della banca e per questo assai ben remunerato (3,1 miliardi di lire di compensi, come scrissero il Daily Telegraph e l’Economist). Ricordatevi bene: Draghi presiedette il comitato per le privatizzazioni.

Così, Goldman Sachs acquistò per due soldi l’immenso patrimonio immobiliare di Eni, Fondazione Cariplo, Unim, Ras e Toro. Prodi privatizzò il Credito Italiano tramite la Goldman ad una quotazione inferiore di quella di borsa, vendette Italgel alla Nestlè per un terzo del suo valore, la Sme a De Benedetti, l’Alfa alla Fiat, Stet, Sirti, senza parlare del caso Cirio. Un elenco interminabile.

Prodi negli anni 90 in sintesi svendette le parti migliori industriali dell’Iri ai suoi potenti amici. Già solo per questo dovrebbe esssere in galera a marcire, ma è fortunato e soprattutto protetto, perchè FACILMENTE MANOVRABILE.

Questo video cade a pennello:

https://www.youtube.com/watch?v=4K7rudBmNUc

Ma andiamo avanti.

Nel 1995 Prodi fu eletto Presidente del Consiglio, restando in carica fino al 1998. Ma in questo breve lasso di tempo troverà modo di negoziare con l’Europa un concambio lira/euro oltre lo svantaggioso: l’Italia rientrerà nella Sme col cambio fissato a 990 lire per ogni marco tedesco, cifra che farà da base per il cambio lira/euro a 1936,27. L’operazione, da più parti additata oggi come la radice della contrazione del potere di acquisti degli italiani da quando è stata introdotta la moneta unica, ci costa pure: per la moneta unica, il governo impone una eurotassa, la cui restituzione integrale stiamo ancora aspettando.

Vi pubblico un’immagine gentilmente concessami dal mio amico di Twitter Don Alfonso:

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Dopo una brevissima ma devastante esperienza in Commissione Europea, venne richiamato dai vari Partiti che non sapevano chi contrapporre a Berlusconi, e vinse. Restò in carica per poco meno di due anni, ma gli furono sufficienti per distruggere la riforma delle pensioni (il celebre scalone) approntata dal precedente governo; introdurre, appoggiato dal duo Padoa-Schioppa e Visco, una valanga di nuove tasse tanto da far segnare il record decennale di pressione fiscale nel 2007 (quota 43.1%).

Ce ne siamo finalmente liberati? Pare di no, visto che il suo nome torna prepotentemente a galla come successore di Napolitano. Ed a mio parere sarebbe quanto di più negativo potrebbe toccare all’Italia: l’uomo è un essere senza scrupoli, prepotente e vendicativo, che con la sua longevità politica fornisce la concreta dimostrazione di tutta la sua pericolosità e della sua capacità di riciclarsi nelle situazioni più diverse.

Due ultimi aspetti: Prodi fonda Nomisma Spa, che casualmente riceve miliardi di lire di finanziamenti pubblici e ciò nonostante registra incredibili perdite in bilancio. Ma il caso Nomisma merita un capitolo tutto suo, che non mancherò di scrivere.

E l’ultimo, che avrebbe anche aspetti grotteschi se non ci fosse in mezzo la morte di Aldo Moro.

Il 3 aprile 1978, badate bene, nel corso di una seduta spiritica a cui partecipa il futuro presidente dell’IriRomano Prodi, una “entità”[nella fattispecie, e come risulterà dal verbale, gli spiriti di Don Sturzo e La Pira, n.d.r] avrebbe indicato “Gradoli” come luogo in cui era tenuto prigioniero Aldo Moro.

Sulla base della segnalazione dall’aldilà, il 6 aprile viene organizzata una perlustrazione a Gradoli, un paesino in provincia di Viterbo. Al ministero dell’Interno, che aveva in precedenza ricevuto la segnalazione su via Gradoli, nessuno mette in collegamento le due cose. E’ la moglie di MoroEleonora, a chiedere se non potrebbe trattarsi di una via di Roma. Cossiga in persona, secondo la testimonianza resa in commissione da Agnese Moro, risponde di no. In realtà via Gradoli esiste, e sta sulle pagine gialle. In seguito alla seduta il professor Prodi si reca a Roma per trasmettere l’indicazione ad Umberto Cavina, capo ufficio stampa dell’on. Benigno Zaccagnini.

E’ la seconda volta che viene fuori il nome “Gradoli”. La prima fu una manciata di giorni prima. Il 18 marzo, alle 9 e 30 del mattino, gli agenti del commissariato Flaminio Nuovo si presentano al terzo piano della palazzina al numero 96 di via Gradoli, una stradina residenziale sulla via Cassia. Una “soffiata” molto precisa, forse proveniente da ambienti vicini ai servizi segreti, ha segnalato che lì, all’interno 11, c’è un covo delle Br. Gli agenti bussano alla fragile porta di legno, ma nessuna risponde. Apre invece l’inquilina dell’interno 9, Lucia Mokbel, e racconta di aver sentito provenire dall’appartamento sospetto dei ticchettii simili a segnali Morse. Secondo le disposizioni vigenti i poliziotti dovrebbero a quel punto sfondare la porta, o quantomeno piantonare il palazzo. Invece vanno via. Al processo Moro presenteranno un rapporto di servizio grossolanamente falso, costruito a posteriori, stando al quale i vicini avrebbero fornito “rassicurazioni” sull’onestà dell’inquilino dell’interno 11, il ragionier Borghi, alias Mario Moretti. Saranno sbugiardati pubblicamente, ma mai puniti.

Il 18 aprile la porta dietro cui forse era stato nascosto, fino a qualche giorno prima, lo stesso Aldo Moro, viene finalmente sfondata. Non da polizia e carabinieri però, ma da pompieri; che ci arrivano a causa di un allagamento. Anche se i brigatisti lo hanno sempre negato, si tratta di una messinscena organizzata perché il covo venga scoperto: il telefono della doccia è sorretto da una scopa e puntato contro una fessura nel muro aperta con uno scalpello in modo da far filtrare meglio l’acqua lungo i muri fino all’appartamento dei vicini, che infatti daranno l’allarme.

Il 10 giugno 1981 Romano Prodi viene chiamato a testimoniare davanti alla Commissione Moro per rispondere degli avvenimenti che sarebbero occorsi durante la seduta spiritica. Leggete con attenzione.

AUDIZIONE DI ROMANO PRODI PRESSO LA COMMISSIONE MORO – 10 GIUGNO 1981
  • PRESIDENTE: Debbo richiamare la sua attenzione sul fatto che la Commissione assume le sue dichiarazioni in sede di testimonianza formale e sulle conseguenti responsabilità in cui ella può incorrere, anche in relazione al dovere della Commissione di comunicare all’Autorità giudiziaria eventuali dichiarazioni reticenti o false (…)
  • ROMANO PRODI: Ripeto quanto ho già scritto nella mia lettera. In un giorno di pioggia in campagna, con bambini e con le persone che penso vedrete successivamente, perchè sono tutte qui, si faceva il cosiddetto «gioco del piattino» (…) Uscirono Bolsena, Viterbo e Gradoli. Naturalmente, nessuno ci ha badato; poi, in un atlante, abbiamo visto che esiste il paese di Gradoli. Abbiamo chiesto se qualcuno ne sapeva qualcosa e, visto che nessuno ne sapeva niente, ho ritenuto mio dovere, anche a costo di sembrare ridicolo, come mi sento in questo momento, di riferire la cosa (…)
  • CORALLO: Per farla sentire meno ridicolo, dato che questa sensazione è un po’ comune a tutti … Mi scusi, professore, vorrei dirle che la scrupolosità della Commissione parte da un’ipotesi che dobbiamo accertare essere inesistente, e cioè – non credo molto agli spiriti – se ci possa essere stato qualcuno capace di ispirarli (…) Chi partecipò attivamente al gioco? Voi eravate tanti, però un ditino sul piattino chi lo metteva?
  • ROMANO PRODI: A turno tutti: c’erano 5 bambini; era una cosa buffa. Non crediamo alla atmosfera degli spiriti e che ci fosse un medium. Io le dico: tutti; anch’io ho messo il dito nel piattino (…)

 

  • PRESIDENTE: Non c’era un direttore dei giochi?
  • ROMANO PRODI: No. Bisogna vedere come se ne sono impadroniti i giornali; come di una seduta medianica, che non so nemmeno cosa sia, ma era un gioco collettivo invece, come tutti facemmo in quel momento; l’ho imparato dopo.
  • LAPENTA: Chi lanciò l’idea di questo gioco?
  • ROMANO PRODI: All’inizio il padrone di casa; non so… All’inizio ero in disparte con i bambini e dopo il gioco mi ha incuriosito.
  • FLAMIGNI: Come venne fuori la specificazione «casa con cantina»?
  • ROMANO PRODI: Ne sono venute fuori diecimila di queste cose: è venuto fuori «cantina», «acqua». In questo momento non lo ricordo nemmeno; il gioco è andato avanti per ore (…) Ripeto che non ho preso sul serio queste cose e, evidentemente, se non ci fosse stato quel nome, non avrei nè raccontato nè detto la cosa perchè cerco di essere un uomo ragionevole, onestamente.
  • FLAMIGNI: Nella testimonianza che lei ha reso al giudice dice: «Fui io a comunicare al dottor Umberto Cavina, nonchè il giorno prima alla Digos di Bologna attraverso un collega universitario, la notizia concernente la località: Gradoli, in provincia di Viterbo. A tale indicazione, con l’aggiunta che poteva trattarsi di una casa…»
  • ROMANO PRODI: Guardi, non me lo ricordavo neanche per il poco peso che gli ho dato. Ne sono saltate fuori tante di queste cose! Tutti hanno detto che non conoscevano questo paese; questo era importante.
  • PRESIDENTE: La notizia era talmente importante che se l’avessero ben utilizzata, le cose probabilmente sarebbero cambiate.
  • ROMANO PRODI: Non ho mai creduto a queste cose … sarà stato un caso.
  • COLOMBO: Tutte le persone parlavano di un paese…
  • ROMANO PRODI: Bolsena, Viterbo, Gradoli; si faceva la targa VT; i monti Volsini… ripeto, dopo si dava importanza perchè avevamo visto dove erano; con la carta geografica in mano, fa tutti i «ballottini» che vuole…
  • CORALLO: «Ballottini» sta per piccoli imbrogli.
  • ROMANO PRODI: Con la carta geografica davanti davanti, lei capisce non è più…Scusi l’espressione.
  • FLAMIGNI: Dopo la seduta spiritica…
  • ROMANO PRODI: No, era veramente un gioco.
  • FLAMIGNI: Non si può chiamare seduta spiritica.
  • ROMANO PRODI: Non me ne intendo; mi dicono che ci vuole un medium.
  • FLAMIGNI: Comunque il risultato, la conclusione è che almeno quando viene fuori la parola «Gradoli» le si attribuisce importanza perchè lo si comunica alla segreteria nazionale della Dc, al capo della Polizia; poi, si muove tutto l’apparato.
  • ROMANO PRODI: Quando l’ho comunicato a Cavina m’ha detto che ce ne sono state quarantamila di queste cose. Fino al momento del nome, non era stato molto importante; per scrupolo (…) lo comunichiamo (…)
  • FLAMIGNI: Lei venne appositamente a Roma per riferire a Cavina?
  • ROMANO PRODI: No, era un convegno…non ricordo su che cosa, e dovevo venire a Roma.
  • FLAMIGNI: E quanti giorni dopo il «giochetto»?
  • ROMANO PRODI: Due-tre, non ricordo (…)
  • FLAMIGNI: Chi interpretava le risposte del piattino?
  • ROMANO PRODI: Un po’ tutti. Era semplice, vi erano le lettere, si mettevano in fila e si scrivevano.
  • FLAMIGNI: Bisognerebbe capire qual era esattamente lo svolgimento del gioco (…) quali erano le domande poste.
  • ROMANO PRODI: Le domande erano: dov’è? perchè? Moro è vivo o morto? Del resto, persone che hanno fatto altre volte il «piattino» sanno di che cosa si tratta e possono darle spiegazioni più esaurienti.
  • BOSCO: Chi erano le persone che l’avevano fatto altre volte?
  • ROMANO PRODI: II professor Clò, ad esempio, ed altri che risponderanno perchè sono tutti qui (…)
  • FLAMIGNI: (…) sarebbe importante quantificare quali furono le domande.
  • ROMANO PRODI: Questo non ha niente a che fare con la tecnica del gioco ed è evidente che me lo ricordi. Le domande erano: dov’è Moro? Come si chiama il paese, il posto in cui è? In quale provincia? E nell’acqua o nella terra? E’ vivo o morto?
  • FLAMIGNI: Quali erano le risposte ad ognuna di queste domande?
  • ROMANO PRODI: Qui intervengono problemi tecnici sui quali potranno essere date spiegazioni più esaurienti delle mie; comunque, vi erano delle lettere su un foglio e il piattino, muovendosi, formava le parole e indicava sì o no.
  • FLAMIGNI: Che cosa succede: uno mette il dito su questo piattino?
  • ROMANO PRODI: No, tutti.
  • FLAMIGNI: Ad un certo momento parte un impulso per cui il piattino si sposta e va su una lettera?
  • ROMANO PRODI: Sì. Posso comunque dire che, dopo questa esperienza, ho trovato tanta gente che mi ha confessato di aver fatto la medesima cosa.
  • CORALLO: (…) Di solito, quando il piattino comincia a muoversi, la domanda che si fa è: chi è l’interlocutore, lo spirito con il quale ci si intrattiene.
  • ROMANO PRODI: Alla fine è accaduto anche questo, ma all’inizio no. C’è stato chi ha detto: interroghiamo Don Sturzo o La Pira, ma le prime risposte, in un primo momento, erano soltanto sì o no.
  • CORALLO: L’interlocutore era dunque ignoto.
  • ROMANO PRODI: All’inizio sì, poi vi furono anche interlocutori vari tra i quali, per quel che mi ricordo, Don Sturzo (…)
  • CORALLO: Si trattava dunque di un gioco in famiglia, tra amici. Un’ultima domanda professore: tra i partecipanti, vi era anche qualche esperto di criminologia?
  • ROMANO PRODI: No, assolutamente no (…) Tra i partecipanti alla seduta vi ero io, che sono un economista, il professor Gobbo, che ha la cattedra a Bologna di politica economica, il professor Clo, che ha l’incarico di economia applicata all’Università di Modena e che si interessa di energia, ma di petrolio, non di fluidi. Vi era anche suo fratello che è un biologo (non so di quale branca, anche se mi pare genetica) e vi era anche il professor Baldassarri che è economista, ha la cattedra di economia politica all’Università di Bologna. Tra le donne vi erano mia moglie, che fa l’economista, la moglie del professor Baldassarri, laureata in economia, ed altre che non so cosa facciano professionalmente.
  • SCIASCIA: Nella lettera che è stata mandata alla Commissione, firmata da tutti voi, si dice che la proposta di fare il gioco è partita dal professor Clo.
  • ROMANO PRODI: Perchè era il padrone di casa.
  • SCIASCIA: Nella lettera si aggiunge che tutti vi parteciparono a puro titolo di curiosità e di passatempo, che la seduta si svolse in un’atmosfera assolutamente ludica.
  • ROMANO PRODI: Vi erano cinque bambini al di sotto dei dieci anni!
  • SCIASCIA: Si dice anche che nessuno aveva predisposizione alcuna di tipo parapsicologico o, comunque, pratica di queste cose, ma una certa pratica di queste cose qualcuno doveva pur averla!
  • ROMANO PRODI: Certo, a livello di gioco, la tecnica era conosciuta; però pratica di queste cose direi che non vi fosse. Ripeto, a posteriori, mi sono reso conto che vi è gente che tutte le sere lo fa!
  • SCIASCIA: Tra i dodici, qualcuno aveva pratica di queste cose?
  • ROMANO PRODI: Intendiamoci sulla parola pratica, onorevole Sciascia. Se qualcuno lo aveva fatto altre volte voi lo potrete sapere chiedendo agli altri, ma nella nostra lettera abbiamo detto che non vi era nessuno che, con intensità, si dedicava a questo. naturalmente vi era qualcuno che, altre volte, l’aveva fatto.
  • SCIASCIA: Francamente, io non saprei farlo.
  • ROMANO PRODI: Anche io non sapevo farlo! Non ne avevo la minima idea e, infatti, mi sono incuriosito moltissimo.
  • SCIASCIA: La contraddizione che emerge è questa: se c’è una seduta di gente che crede negli spiriti o, comunque, nella possibilità che si verifichino fenomeni simili, se c’è una seduta di questo genere – ripeto – e ne viene fuori un certo risultato del quale ci si precipita ad informare la Polizia ed il Ministero dell’Interno lo posso capire benissimo, ma che si svolga tutto questo in un’atmosfera assolutamente ludica, presenti i bambini, per gioco, e che poi si informi di ciò la Polizia attraverso la mediazione di uno che non era stato presente al gioco, e se ne informi quindi il Ministero dell’Interno, a me sembra eccessivo e contraddittorio.
  • ROMANO PRODI: Ma è venuto fuori, onorevole, un nome che nessuno conosceva! Anche se ci siamo trovati in questa situazione ridicola, noi siamo esseri ragionevoli. Ci siamo chiesti tutti: Gradoli nessuno di voi sa se ci sia? Se soltanto qualcuno avesse detto di conoscere Gradoli, io mi sarei guardato bene dal dirlo. E’ apparso un nome che nessuno conosceva, allora per ragionevolezza ho pensato di dirlo.
  • SCIASCIA: Direi per irragionevolezza.
  • ROMANO PRODI: La chiami come vuole. La motivazione reale è che con una parola sconosciuta, che poi trova riscontro nella carta geografica, a questo punto è apparso giusto per scrupolo…
  • SCIASCIA: Poteva far parte della insensatezza del gioco anche il nome Gradoli.
  • ROMANO PRODI: Però era scritto nella carta del Touring.
  • SCIASCIA: La signora Anselmi dice che seguirono dei numeri che poi risultarono corrispondere sia alla distanza di Gradoli paese da Viterbo sia al numero civico e all’interno di via Gradoli.
  • ROMANO PRODI: Questo proprio non mi sembra … c’era sul giornale…
  • SCIASCIA: La signora dice di aver sentito questo dal dottor Cavina.
  • ROMANO PRODI: Onestamente io non.. Non avrei difficoltà a dirlo.
  • CORALLO: Nell’appunto di Cavina c’è il numero della strada.
  • ROMANO PRODI: Può darsi che negli appunti ci sia perchè dopo abbiamo visto sulla carta, strada statale, i monti vicini. L’importante è che si trattava del nome di un paese che a detta di tutti nessuno dei presenti conosceva. Capisco che era tutta un’atmosfera irragionevole, però…
  • SCIASCIA: Non mi sembra determinante il fatto che non si conoscesse il nome. Viterbo si conosceva e poteva benissimo trattarsi anche di Viterbo.
  • ROMANO PRODI: Se fosse stato Viterbo, non ci avrei badato perchè si può sempre comporre una parola che si conosce.
  • SCIASCIA: Chi ha deciso di comunicare all’esterno il risultato della seduta?
  • ROMANO PRODI: L’ho fatto io perchè ero l’unica persona che conoscesse qualcuno a Roma. Ho parlato con tutti, con Andreatta etc. Non è che ho telefonato d’urgenza; ho detto vado a Roma e lo comunico. Questo è stato deciso una volta che si è saputo che esisteva questo paese che nessuno conosceva.
  • SCIASCIA: Ora le farò una domanda che farò a tutti. Lei ha mai conosciuto nessuno accusato o indiziato di terrorismo?
  • ROMANO PRODI: Mai.
  • COVATTA: II senso della domanda è se qualcuno aveva interesse ad ispirare gli spiriti.
  • ROMANO PRODI: E’ sempre la domanda che mi sono sempre posto anch’io.
  • BOSCO: All’interrogativo che si è posto, come ha risposto? Cioè se qualcuno poteva aver ispirato gli spiriti.
  • ROMANO PRODI: Lo escluderei assolutamente.
  • BOSCO: Quindi si è trattato di spiriti.
  • ROMANO PRODI: O del caso … Non so … Mi sembra che il senso della domanda dell’onorevole Covatta sia quello di chiedere se c’era qualcuno che voleva fare «il furbetto», spingendo in un certo modo o rallentando. Questo no. D’altra parte…
  • FLAMIGNI: Se avessimo ascoltato un riferimento di quella seduta in maniera molto impegnata e che i protagonisti credevano veramente allo spiritismo e alla possibilità di avere qualche forza in aiuto, allora mi darei una spiegazione, ma proprio perchè il professor Prodi parla di tutto ciò come un gioco, la mia curiosità si accentua. Ritengo che qualcuno potesse anche sapere. Parto da questa considerazione per dire che voglio conoscere le domande effettive e le risposte che sono venute fuori.
  • ROMANO PRODI: Ho detto le domande effettive e le risposte. Uno dei problemi che si pone per una cosa del genere è proprio quello contenuto nella sua domanda. Crede che quando è uscito il nome di via Gradoli io non mi sia posto il problema di chiedermi se c’era qualcuno che faceva il furbo? Altrimenti non sarei qui in questa situazione in cui mi sento estremamente imbarazzato ed estremamente ridicolo (…)

Il caso viene riaperto nel 1998 dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo e le stragi, al fine di chiarire le motivazioni che avrebbero portato su un’altra pista le ricerche della prigione di Moro ed escludere che l’utilizzo del nome “Gradoli” fosse stato un modo per informare le stesse Brigate Rosse dell’avvicinamento delle forze di polizia all’omonima via, sita nei pressi della via Cassia di Roma. Il professor Prodi non si rende disponibile per essere ascoltato dalla Commissione parlamentare.

Il 5 aprile 2004 Romano Prodi viene ascoltato come testimone dalla “Commissione parlamentare d’inchiesta concernente il dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana”. Secondo il presidente della commissione, Paolo GuzzantiProdi “non ha avuto il coraggio di pronunciare le parole seduta spiritica, piattino o tazzina”. Nel corso della seduta, l’On.Fragalà ha ricordato all’ex presidente dell’Iri un articolo del settimanale “Avvenimenti“, secondo il quale Giuliana Conforto, figlia di Giorgio Conforto, agente del Kgb con nome in codice Dario, aveva ospitato Valerio Morucci e Adriana Faranda, brigatisti contrari al sequestro di Moro. Un’amica di ConfortoLuciana Bozzi, aveva affittato la casa di via Gradoli al commando delle Br. Secondo questa tesi, non commentata da Prodi, fu il Kgb a far sapere del covo di via Gradoli e la messinscena della seduta spiritica fu organizzata per coprire la vera fonte.

Bene, direi che il quadro Prodi è stato dipinto, anche se su di lui c’è talmente tanto materiale da poter riempire quadri per un’intera galleria d’arte. 

Ringraziando di cuore i franchi tiratori che hanno bocciato la sua elezione a Presidente della Repubblica, pregandovi di toccare tutto il toccabile perchè possa accaderci questa sciagura.

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