Forse non tutti conoscono la persecuzione giudiziaria subita da un Eroe anti-mafia: CAPITANO ULTIMO.

ll giallo che non e’ mai stato un giallo, una storia che nessuno ha voluto ascoltare, un epilogo pressoche’ scontato, che vede il Capitano Ultimo l’unica persona processata quattro volte per aver svolto il proprio lavoro nonostante abbiano fatto di tutto per impedirglielo.

Il primo processo: dall’arma dei carabinieri

Ultimo ha subìto il suo primo processo dalla sua famiglia, l’arma dei Carabinieri che ha servito con la massima professionalita’, lealta’ e a rischio della propria vita.

Subito dopo l’arresto di Riina il suo gruppo fu sciolto e furono abbassate le sue note caratteristiche da persona “eccellente” a “superiore alla media“. Dopo una serie di richieste che Ultimo fece all’arma per poter lavorare con il massimo rendimento, vedendo che l’unica cosa che otteneva era precariata’ e mancanza di strutture e di personale, il “capitano” chiede un trasferimento ad un altro reparto. In risposta ad Ultimo ci fu un comunicato all’ansa da parte dell’ex comandante del Ros Sabato Palazzo, in cui replica di aver dato la massima disponibilita’ a Sergio De Caprio. Il nome di Ultimo fino ad allora era sconosciuto per ovvi motivi di sicurezza.

A distanza di qualche anno, a seguito di un blitz anticamorra a Pozzuoli, Sabato Palazzo e’ chiamato a rispondere per reati quali corruzione, falso, favoreggiamento aggravato e abuso di ufficio.

Il secondo processo: giudiziario

Qui possiamo cominciare dalla fine: dopo un anno di processo e di tentativi di incriminare chi ha – di fatto – trovato e catturato il capo di Cosa Nostra, siamo tornati al punto di partenza. Il 19 febbraio 2005, esattamente un anno fa, i PM dichiararono “per noi sarebbe difficile andare a rappresentare un’accusa alla quale non crediamo“.

I PM avevano chiesto gia’ due volte l’archiviazione, il non luogo a procedere, perche’ “il fatto non costituisce reato, o, in subordine, il proscioglimento“, ma il Gip , la scaltra Vincenzina Massa, (che ha combattuto con le unghie e con i denti per farci assistere a questo penoso spettacolo da circo), espertissima di antimafia, evidentemente, impose ai pubblici ministeri l’incriminazione coatta con l’ipotesi di favoreggiamento aggravato nei confronti di Cosa Nostra, reato che non prevede prescrizione, stilando un rapporto in cui spiegava la assoluta necessita’ di incriminare i due ufficiali.

Nell’ordinanza di imputazione coatta il Gip fa riferimento al verbale di sopralluogo e alla documentazione fotografica che dimostrano l’esatto contrario di quel che sostiene nel provvedimento. In queste 35 pagine di motivazioni, la Gip si chiedeva che fine aveva fatto la cassaforte asportata dal muro, per esempio. Peccato pero’ che la cassaforte non e’ mai stata asportata, ne’ tantomeno e’ stata trovata aperta dai carabinieri quando il 2 febbraio poterono finalmente eseguire la perquisizione. Fu usata infatti la fiamma ossidrica per aprire la cassaforte dal retro.

Oggi, a un anno dal processo, i PM devono aver dimenticato il motivo del processo, perche’ il reato di cui vengono accusati gli imputati e’ quello di favoreggiamento a Cosa Nostra. Un solo reato, per cui pero’ vengono fatte due richieste: una di assoluzione perche’ il fatto non sussiste, e l’altra di prescrizione perche’ il favoreggiamento potrebbe essere semplice, e non aggravato, citando anche la discussa legge cirielli in realta’ inapplicabile per questo processo.

Una cosa ci sfugge: se, come dice Ingroia, “favoreggiamento nei confronti di Cosa Nostra non c’e’ stato” nei confronti di chi c’e’ stato? Addirittura il pm Prestipino apre la requisitoria con elogi nei confronti degli imputati: ‘«Quello che oggi si conclude e’ un processo particolare, sia per i due imputati rappresentanti delle istituzioni, le cui qualita’ professionali non sono mai state messe in discussione, sia per le note vicende procedimentali che lo hanno caratterizzato‘».

Se Ultimo non ha favoreggiato Cosa Nostra e nel caso del Covo di Riina ci sono delle ombre, chi sono i responsabili? Nel diario degli appuntamenti del sostituto procuratore Aliquo’ si legge in data 27 gennaio che nel corso di una riunione con i vertici del Ros, seppur la procura sollecitasse l’effettuazione di una perquisizione nella villa di via Bernini, l’allora colonnello Mori “sembra non avere urgenza e dice che l’osservazione del complesso di via Bernini stava creando tensione e stress al personale operante, accennando alla sua sospensione”.
Peccato pero’ che quel giorno il colonnello Mori stava interrogando Vito Ciancimino nell’aula bunker di Rebibbia, in compagnia proprio della sua pubblica accusa Antonio Ingroia (che tra le altre cose aveva lodato la “scrupolosa e minuziosa cronaca del dottor Aliquo’ in presa diretta“).
Diverse inesattezze sono riportate nel famoso e scrupoloso diario, compreso l’avvenuto arresto della Bagarella. Ma non era un errore di data. La famosa riunione con Mori non c’e’ mai stata, ed a documentare il tutto sono i registri con le autorizzazioni dell’arma sui vari spostamenti di tutti.

Aliquo’ ha quindi prodotto documenti falsi? Purtroppo per lui questa non e’ un’opinione, ma un fatto inconfutabile provabile dai verbali degli interrogatori con Ciancimino. E che sarebbe giusto approfondire.

La storia, quella vera, quella che nessuno ha potuto smontare per l’ovvieta’ dell’andamento logico dei fatti, e per i documenti presentati in questo processo, e’ che via Bernini, dopo l’arresto di Riina, doveva essere il punto di partenza di Ultimo per riuscire a catturare anche tutta l’imprenditoria che i fratelli Sansone stavano tenendo in piedi. Per continuare a tenere osservata via Bernini e a controllare le 8 utenze telefoniche riconducibili ai Sansone trovate in quel comprensorio, bisognava trovare un modo per depistare chi ci abitava dentro, per far credere che nessuno sapesse che quel covo era in una situazione di pericolo. Fu quindi deciso di fuorviare la stampa, di non dire che il covo di Riina era in via Bernini, e furono mandati inizialmente tutti i giornalisti altrove, mettendo cosi’ Ultimo e il suo gruppo in condizioni di poter fare i lavori di polizia giudiziaria per effettuare i dovuti accertamenti bancari, intercettazioni telefoniche, pedinamenti ecc. Malauguratamente all’interno dell’arma ci furono delle inopportune fughe di notizie che portarono giornalisti come Bolzoni e altri, a piantonare via Bernini, 54 per fare lo scoop,favoreggiando cosi’ Cosa Nostra. Chi viveva in quel comprensorio, ovviamente, avra’ avuto modo di fiutare il pericolo vedendo giornalisti curiosi nei dintorni a fare domande su Riina, bruciando cosi’ tutta la copertura. (Interrogatorio del 2003 durante le indagini preliminari: “[…]il Maggiore RIPOLLINO aveva avvisato i giornalisti di quale era l’abitazione di RIINA, mentre in Procura era stato deciso di non rivelarlo, infatti era stata fatta l’attivita’ su Fondo Gelsomino per non svelare che invece sapevamo dove stava RIINA e quindi una farsa totale, cioe’ se noi decidiamo di non dirlo, quello invece lo dice, mi dice che senso ha, comunque l’esigenza nostra era quella di sparire, lasciarli quanto piu’ possibile tranquilli e di riprenderli nel momento in cui loro, che sicuramente si saranno verificati cinquantamila volte, si ritenevano tranquilli, riprendevano la loro normale attivita’ di Cosa Nostra e noi allora saremmo dovuti essere li’ e avremmo fatto la stessa attivita’ che avevamo fatto sui GANCI. Questo e’ quello in cui credo e su questo mi ci sono giocato la mia vita, la mia professionalita’ “.)

Un’altra domanda lecita e’: se Ultimo non avesse insistito per tenere d’occhio via Bernini invece di Fondo Gelsomino, come richiesto dal procuratore aggiunto Aliquo’ e dal colonnello Cagnazzo, Riina sarebbe dietro le sbarre adesso?

Ci sono altri tasselli, oltre a tutto questo, meritevoli di attenzione. Un muratore, Angelo Parisi, ha raccontato che tra il 20 e il 22 gennaio gli venne confermato l’incarico dal padrone della casa di via Bernini, Giuseppe Montalbano, di svolgere di lavori di ristrutturazione ‘«del bagno, coloritura, togliere carta da parati, eliminare umidita’ dalle pareti‘». Per fare cio’ ‘«spostammo i mobili che abbiamo coperto per non impolverarli‘», ‘«lavorammo due o tre giorni‘», dopodiche’ «una mattina andammo in via Bernini 54 e trovammo un sacco di carabinieri‘». La perquisizione e’ del 2 febbraio. Tutto torna.

Per quanto riguarda invece l’altro giallo, quello della mancanza di osservazione con le telecamere in via Bernini, il punto e’ che il metodo che Ultimo ha usato (e sempre con successo) non e’ quello di tutti, e cioe’ per tenere sotto controllo un’abitazione, non solo non e’ necessario tenere puntate le telecamere 24 ore su 24, ma e’ un modo di fare vivamente sconsigliato. Un’attivita’ consecutiva con il furgone per troppi giorni porta solo ad insospettire la “preda”, quindi per tenere sotto controllo costante la zona, bisognava pedinare, fare richerche bancarie (infatti il 26 fu trasmessa alla procura tutta la situazione patrimoniale dei Sansone che era stata richiesta) ascoltare le telefonate, seguire, all’occasione usare le telecamere, ma non in maniera troppo presente e ossessiva, perche’ se l’osservazione doveva essere costante nel tempo non potevano permettersi di farsi beccare in maniera idiota, magari montando un carrello elevatore sul palo della luce per montare una telecamera all’interno del comprensorio. Questo si, sarebbe stato deleterio, oltre che stupido. Ma queste cose non sono informazioni che si sanno adesso, perche’ c’e’ il processo. Sono tutti fatti che in fase istruttoria hanno convinto i PM alla non colpevolezza dei due ufficiali. Gli stessi fatti, poi, che hanno convinto i PM delle loro colpevolezza, e poi ancora della loro innocenza e “indiscussa capacita’ “.

Il fine di Ultimo insomma, non era la cattura di Riina e basta, ma seguire i Sansone, e ricostituiremo i circuiti politico imprenditoriali. Un’operazione questa che in Sicilia deve essere o bloccata. I metodi sono stati quelli che vediamo adesso. Teniamo anche conto che questo processo ha giovato a Cosa Nostra perche’ adesso sanno come il gruppo di Ultimo opera (operava, e’ meglio), sanno anche i nomi e i cognomi di tutti gli appartenenti all’operazione dell’arresto di Riina.

Il terzo processo: da Cosa Nostra

“Numerosi collaboratori di giustizia dal 1993 al 1997 riferiscono dell’esistenza di un progetto “aperto” di Cosa Nostra (Bernardo Provenzano e Leoluca Bagarella), finalizzato all’uccisione di Ultimo. Secondo Gioacchino La Barbera, Leoluca Bagarella avrebbe offerto ad un carabiniere (mai indentificato) un miliardo di lire per ottenere notizie utili all’individuazione dell’ufficiale (fonte: L’azione – tecniche di lotta anticrimine)”.

Ora pero’, dalle ultime testimonianze dei pentiti, Ultimo non doveva essere ucciso, doveva essere solo sequestrato. Per fare una partitina a carte, magari. A tressette col morto, forse. Pare che ad ogni modo, a quanto risulta dai pentiti, l’ufficiale e’ stato individuato, e il progetto di “sequestro” fosse avallato anche dallo stesso Provenzano.

Brusca pero’ di cose ne dice tante. Ha riferito che molti pensavano che Provenzano fosse un confidente dei Carabinieri. Ad ogni modo, chiedendo allo stesso Ultimo cosa pensasse delle esternazioni di Brusca su presunte collaborazioni di Provenzano, Ultimo risponde: “in Cosa Nostra non esiste il sospetto, se uno e’ sospettato di essere collaboratore, muore. Non si fa salotto, li’, quella e’ una guerra. Si ammazzano tra familiari consanguinei stretti, solo per il sospetto che ci sia collaborazione con i Carabinieri. Ad ogni modo, se Provenzano, il capo di Cosa Nostra, fosse un nostro collaboratore, non ci sarebbe neanche la lotta alla mafia, non ci sarebbe la mafia. Ma poi, come mai Provenzano collabora con i carabinieri e Brusca lo cattura la Polizia, Bagarella la Dia, ecc ecc?”

E come Brusca, Giusy Vitale e’ stata una delle protagoniste di questo spettacolo, di cui vorro’ farmi restituire il biglietto, perche’ e’ stato uno spettacolo niente affatto divertente, niente affatto giusto, a prescindere dalle decisioni del giudice.

Il quarto processo: mediatico

“I carabinieri del Ros che arrestarono Toto’ Riina abbandonarono la postazione nascondendo al procuratore Caselli che se n’´erano andati, che avevano lasciato libera una squadretta di mafiosi di infilarsi la’ dentro e svuotare il covo del boss dei boss. Questa e’ una vicenda molto italiana, Leonardo Sciascia l’avrebbe chiamata una “storia semplice”. Questo e’ un pezzo di articolo di Bolzoni preso da antimafiaduemila. Ma dove le abbiamo sentite queste parole? Ah, si, da Ingroia, nella requisitoria. (La mancata perquisizione del covo del boss mafioso Toto’ Riina subito dopo il suo arresto e la cessazione dell’attivita’ di osservazione decisi dal Ros senza avvertire la Procura ”altro non e’ che ‘Una storia semplice”). Si fara’ forse preparare i testi da Bolzoni? Scherzi a parte, Bolzoni non ha fatto altro che parlare di Ultimo come “l’uomo famoso grazie alla fiction”, l’uomo che senza una soffiata non avrebbe mai preso Riina, affermando il falso con la storia dei mafiosetti entrati a svaligiare casa, ha solo buttato fango, mettendo a caratteri cubitali le colpe additate ai due ufficiali, perche’ “cosi’ dicono i pentiti”. Questo perche’? Perche’ ha scritto un libro che avalla la tesi della trattativa tra Stato e Mafia. Su queste dichiarazioni non ha mai voluto rilasciare nessuna fonte avvalendosi della facolta’ di non rispondere tutelata dal segreto professionale. Un po’ come se si dicesse che Ferrara e’ un pedofilo senza poter mai provare nulla. Intanto il dubbio rimane, il libro vende, guadagna, ma la persona rimane infangata agli occhi di chi non ha fonti alternative ai giornali “enbedded”, gli autorizzati a parlare di questi argomeni. Durante le udienze, tra bolzoni e Lodato c’era la gara tra i “non so, non ricordo”. Addirittura Bolzoni non ha potuto confermare quanto scritto in un suo libro perche’ non l’aveva riletto!!! (leggi verbale)

Il processo mediatico non finisce con i giornali “Repubblica” o “L’unita’ “, che titola l’articolo della requisitoria “Mori salvato dalla Cirielli” sapendo benissimo che la Cirielli non e’ neanche applicabile ne’ a questo processo ne’ per questo tipo di reato.

Il processo mediatico va oltre.

Il giorno che e’ iniziato il processo, anticipando il palinsesto di una settimana, viene mandato in onda il film “L’uomo sbagliato”, la storia di Daniele Barilla’ , condannato per errore giudiziario in una operazione portata avanti con l’aiuto dello stesso capitano Ultimo. Una cosa strana e’ che il regista del film e’ lo stesso che ha diretto la fiction “Ultimo”, la prima serie, poi scalcato da Michele Soavi. Dopo essere stato scalzato da un altro regista, stranamente, fa un film che narra le gesta sbagliate del capitano di cui ha raccontato l’arresto di Riina.

Rivalsa?

Non si sa. Una cosa che si dovrebbe sapere, pero’ e’ che l’avvocato del Barilla’ martire assolto in appello, e’ stato denunciato dalla procura della repubblica per aver prodotto documenti falsi per tutelare e “aggiustare” la situazione del suo assistito. E che l’appello e’ stato vinto perche’ il quantitativo di cocaina di cui fu trovato in possesso, non era di 50 kg ma di qualcosa in meno.

On line da oggi la denuncia della procura da domani la sentenza di condanna in primo grado. Se vuole dire la sua gli diamo anche spazio per parlare. Ci faremo spiegare che lavoro faceva, quanto tempo sono andate avanti le indagini, quali erano le persone che frequentava. Magari potra’ smentire che la sua cricca era fatta di assassini, spacciatori, ecc ecc.

Girava voce che anche su Giusy Vitale stanno preparando un film (non sappiamo quanto sia vera la notizia, l’abbiamo scoperta con una notifica di google. Il giorno in cui il Newsweek parlava della Vitale come l’aspirante boss di Cosa Nostra che ambirebbe alla Cupola, su repubblica on line si leggeva la notizia che la storia della pentita sara’ un film).

Il crimine che e’ stato compiuto dagli animatori della campagna stampa che ha prodotto questo processo e’ stato quindi, ed e’ tuttora, quello di legittimare l’associazione mafiosa Cosa Nostra e le sue opinioni.

 

clicca qui per scaricare alcuni mp3 delle udienze ed i documenti riguardanti Barillà

Clicca qua per vedere le foto del giallo del Covo

fonte: censurati.it

Postilla della giornalista Antonella Serafini:

questo post scriptum e’ stato scritto il 9 marzo, come aggiornamento che non pensavo dovesse essere utile. Tra i giornalisti che fanno di tutto per screditare Ultimo, anche a processo finito (non quello mediatico, evidentemente), c’e’ anche Sandro Provvisionato, che qualche mese fa si vanto’ con me, la scrivente, di essere stato l’artefice dei dubbi innescati sul covo. Dopo una serie di scambi epistolari in cui in anteprima esponevo i fatti che sono nell’articolo di sopra, concluse con un “sei solo una povera sfigata”. Pensavo fosse chiuse li’ il discorso, ma oggi e’ stata inviata la newsletter di misteriditalia, in cui si innesca il dubbio (fondato da nulla, come tutte le accuse giornalistiche, in fondo) che probabilmente le stragi del ’93 potevano essere evitate se Ultimo avesse perquisito il covo. Le email scambiate con Provvisionato non le ho mai cancellate, in caso dovessero servire per accertarne l’esistenza a causa di denuncia per diffamazione. La trasparenza e’ la nostra migliore arma.

32 anni fa veniva assassinato dalla mafia il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.

Ero in prima superiore. Ci portarono a vedere un film appena uscito: Cento giorni a Palermo.

Il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, con la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo sono stati i primi Eroi Veri ad entrare prepotentemente nella mia vita: mi hanno aperto gli occhi su quello che accadeva e tutt’ora accade in Italia, su chi volevo essere e su chi sapevo non avrei mai voluto diventare.

Sono trascorsi 32 anni dalla strage di Via Carini.

Ed ogni anno sono solita riguardarmi il dvd di quel film, ormai straconsumato: conosco ogni battuta a memoria, e non riesco a trattenere le lacrime, perchè so che quello è romanzato, la realtà è ancora più cruenta.

Quanto avremmo bisogno di Uomini del genere in questa Italia devastata.

Uomini di Stato, pronti al sacrificio maggiore per difenderlo: la propria vita.

Invece siamo contornati da approfittatori, mezzi delinquenti, ladri, che macchiano la memoria di queste enormi perdite con una nonchalance che fa venire il vomito.

Riporto un articolo preso dal Giornale dell’Umbria, in Sua e Loro memoria:

Carlo Alberto dalla Chiesa era un uomo con la schiena così dritta da far meraviglia, in una società, allora come oggi, segnata da servi sciocchi e da seguaci dell’ultimo venuto, purché abbia il potere e doni prebende. Quindi, quasi per conseguenza logica, era un carabiniere: uno, come amava spesso dire, «con gli alamari cuciti sulla pelle», uno che credeva, del tutto giustamente, che l’Arma Benemerita fosse l’osso della schiena dell’Italia unita.
Anch’io, come lui, sono figlio di un carabiniere e so, per esperienza personale, cosa abbia voluto dire, per Carlo Alberto, ricevere l’eredità spirituale, piena dell’Idea del Risorgimento nazionale, che per lui era anche la continuazione della storia familiare del padre Romano e del fratello Romolo. Essere carabiniere vuol dire essere italiano alla seconda potenza: raccogliere in sé, ogni giorno, nell’esempio  tipico della tradizione mazziniana, il rigore, il senso di umanità, la possanza della Legge e l’Idea di un Popolo che si è unito politicamente tardi, ma, come gli Ebrei e i Cinesi, è antichissimo.
La Resistenza
Tutto inizia con la fuga dalle “SS”, con le quali lui si era rifiutato di collaborare, e poi continua nella Resistenza marchigiana, tanto lodata dallo storico, e prima di ciò agente dei servizi britannici, Max Salvadori. Per Carlo Alberto unirsi alla Resistenza non volle dire, come per moltissimi suoi compagni d’arme e carabinieri, iniziare una nuova “rivoluzione italiana”, ma ripristinare l’onore d’Italia, e il suo posto legittimo tra le Nazioni civili.
Il mito della “resistenza negata” fu, paradossalmente, proprio all’origine, tra il Feltrinelli e un certo Pci legato a Pietro Secchia, piemontese anche lui come Carlo Alberto, delle prime Brigate Rosse, nate in un paradossale “compromesso storico” rivoluzionario e sovversivo dalla unione della sinistra cattolica rivoluzionaria della facoltà di Sociologia a Trento con i giovani allievi dei resistenti comunisti legati alla tradizione di Pietro Secchia, che pure fu eliminato dal Pci di Togliatti su ordine del “piccolo padre”, Stalin. Due Resistenze, quella di Carlo Alberto e quella che darà poi origine, in parte, alle Brigate Rosse, che non si incontreranno mai se non per scontrarsi all’ultimo sangue.
Cos’è la mafia
L’esperienza di vero e proprio “segugio”, di straordinario analista e, direi, quasi “sociologo” di Carlo Alberto si affinarono con la sua esperienza in Sicilia, agli ordini del colonnello Ugo Luca, poi figura straordinaria dei nostri Servizi.
E come non dimenticare, qui, i tanti “allievi” di dalla Chiesa, come per esempio il generale Pignero, ucciso poi da una grave malattia e, soprattutto, da una sciocca e offensiva inchiesta giudiziaria?
Sono sempre più convinto, oggi, che Carlo Alberto abbia capito già tutto della mafia quando comandava il Gruppo Squadriglie di Corleone, dove poi doveva svilupparsi una delle più feroci e sanguinarie linee di evoluzione di “cosa nostra”.  Cos’era la mafia, per Carlo Alberto dalla Chiesa? Una struttura complessa, che subornava la società siciliana, un po’ come oggi certi gruppi terroristici jihadisti costringono la popolazione araba  a coprirli e a sostenerli,  e d’altra parte, secondo alcuni illustri filologi, la parola “mafia” sarebbe di origine araba.
La mafia, diceva Carlo Alberto, è «cauta lenta, ti misura, ti ascolta, ti pesa alla lontana». Una forza che si è engrammata nella vita civile e  economica siciliana (e non solo siciliana, naturalmente) per utilizzarla come strumento, quasi come se fosse un virus. Viene in mente qui quando il barone di Sant’Anna, feudatario di Calatafimi, ordinò ai suoi uomini di mano di osservare il combattimento tra garibaldini e borbonici, con l’ordine di dare una mano al vincitore.
Appena i soldati del Re mostrarono di essere i meno forti, i manutengoli del Barone scesero dalle alture intorno al luogo della battaglia e uccisero ferocemente i soldati del re di Napoli.
Ecco, la classe dirigente della Sicilia ha accettato il resto d’Italia come il barone di Sant’Anna i garibaldini.
La lotta e le Istituzioni
Erano le stesse idee sulla mafia, quelle di Carlo Alberto, piemontese  di Saluzzo, che aveva Giovanni Falcone, palermitano della Kalsa.
E ritorna qui, dopo che sono morti tutti, la reazione di dalla Chiesa alla sua nomina a Prefetto di Palermo: «mi mandano a Palermo con gli stessi poteri del Prefetto di Forlì», ma io sono convinto che non fosse certo una sorta di “punizione politica”, sono piuttosto sempre più certo che l’invio di Carlo Alberto sia stato il segno di quella ingenuità che talvolta lambisce anche i furbissimi di professione.
La lettura della mafia, prima che Carlo Alberto fosse inviato alla prefettura palermitana, era da parte della classe politica una analisi ingenua e troppo legata ad una tradizione ottocentesca da legulei, di “mafia delle acque” e di “mazzieri” locali, quelli che Salvemini accusava di sostenere i governi di Giovanni Giolitti, il “ministro della malavita”, secondo lo storico pugliese.
D’altra parte, siamo ancora ossessionati dalla  favola secondo la quale la mafia sarebbe stata riportata in Sicilia dagli americani con la loro “Operazione Husky” del 1943. Balla. I Servizi che analizzavano la Sicilia erano quelli britannici, dato che Londra aveva una lunga relazione di affari e con le famiglie nobili siciliane.
Quindi “cosa nostra”, per Carlo Alberto dalla Chiesa era un insieme di valori deviati, di interessi di coperture, certo, anche politiche, ma non solo, che permettevano l’eccezionalità siciliana e sostenevano il folle mito della “autonomia” dell’Isola.
Ci sono, quindi, dei legami, delle connessioni tra la lettura che della mafia fece Carlo Alberto e della strategia che egli usò contro le Brigate Rosse.
In entrambi i casi, si trattava di studiare i meccanismi simbolici, i processi culturali e politici interni, le forme del potere, ma, alla fine, occorreva colpire e colpire senza pietà.
La corrispondenza privata
È ben noto che Carlo Alberto dalla Chiesa non abbia potuto colpire duro la mafia, i “cento giorni” a Palermo erano davvero troppo pochi.
Ma, dalle sue interviste di quell’epoca, dalle iniziative nelle scuole, si delinea una strategia chiarissima: creare una rete di informazioni, notizie, relazioni che imbozzoli “cosa nostra”, per poi, come con le Brigate Rosse, colpire e colpire duro. Ritengo, per i nostri contatti di allora, che Carlo Alberto non abbia avuto nessuna cura delle cosiddette “relazioni internazionali” delle BR, come sono certo trascurasse volutamente quelle della mafia. Erano banalità, quando non “controinformazione”, il problema, allora come oggi, è creare una rete di informatori e poi dirigere uno strike durissimo al cuore dell’organizzazione.
Era certo triste, Carlo Alberto, perché percepiva che la classe politica, nel suo insieme, salvo per qualche tratto Francesco Cossiga e Bettino Craxi, non comprendesse fino in fondo il pericolo mafioso, come prima aveva giocato con quello delle BR, e quindi lo emarginasse. Mi ricordo di una lettera a mia madre di Carlo Alberto dalla Chiesa in cui, ringraziandola per gli auguri, che «la nostra famiglia (l’Arma, ndr)  ha tanto bisogno di avere gli alamari puliti e circondati dalla considerazione dei puliti».
A me, poi, nell’anno 1980, aveva scritto che «troppe circostanze  conducono a registrare l’amarezza, la solitudine, l’incomprensione, il calcolo, troppe situazioni sanno di equivoco, di compromesso, di ipocrisia, di riserva mentale». E ora, io con lui, e sempre dalla stessa lettera a me indirizzata da Carlo Alberto, voglio ripetere: «Coraggio! Un coraggio che è solo ricordato dagli umili, dai modesti, dagli inermi, dagli ignoti che, da ogni parte d’Italia e non, mi chiedono e mi dicono di voler “credere” ancora».
Ecco, è da questa Italia umile che ancora “crede”, dagli alamari puliti, dalla limpida coscienza nazionale, dal rispetto delle nostre migliori tradizioni, tra le quali quella di Carlo Alberto dalla Chiesa brilla, dovremo ricominciare a ricostruire il Paese, il più presto possibile. Coraggio.

Presidente de “La Centrale Finanziaria Generale SpA”; professore di Economia e Politica internazionale presso la Peking University (Cina)

 

Ecco.

Io non dimentico i veri Eroi Italiani.

Cari lettori, sarebbe bello che nessuno lo facesse: è da questa nostra storia che possiamo trarre insegnamento per la nostra rinascita.

Come trent’anni fa mi toccò la Tua storia, continua a farlo ogni giorno.

GRAZIE. IO NON DIMENTICO. E MI INCHINO. ORA E SEMPRE.

 

 

 

 

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