32 anni fa veniva assassinato dalla mafia il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.

Ero in prima superiore. Ci portarono a vedere un film appena uscito: Cento giorni a Palermo.

Il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, con la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo sono stati i primi Eroi Veri ad entrare prepotentemente nella mia vita: mi hanno aperto gli occhi su quello che accadeva e tutt’ora accade in Italia, su chi volevo essere e su chi sapevo non avrei mai voluto diventare.

Sono trascorsi 32 anni dalla strage di Via Carini.

Ed ogni anno sono solita riguardarmi il dvd di quel film, ormai straconsumato: conosco ogni battuta a memoria, e non riesco a trattenere le lacrime, perchè so che quello è romanzato, la realtà è ancora più cruenta.

Quanto avremmo bisogno di Uomini del genere in questa Italia devastata.

Uomini di Stato, pronti al sacrificio maggiore per difenderlo: la propria vita.

Invece siamo contornati da approfittatori, mezzi delinquenti, ladri, che macchiano la memoria di queste enormi perdite con una nonchalance che fa venire il vomito.

Riporto un articolo preso dal Giornale dell’Umbria, in Sua e Loro memoria:

Carlo Alberto dalla Chiesa era un uomo con la schiena così dritta da far meraviglia, in una società, allora come oggi, segnata da servi sciocchi e da seguaci dell’ultimo venuto, purché abbia il potere e doni prebende. Quindi, quasi per conseguenza logica, era un carabiniere: uno, come amava spesso dire, «con gli alamari cuciti sulla pelle», uno che credeva, del tutto giustamente, che l’Arma Benemerita fosse l’osso della schiena dell’Italia unita.
Anch’io, come lui, sono figlio di un carabiniere e so, per esperienza personale, cosa abbia voluto dire, per Carlo Alberto, ricevere l’eredità spirituale, piena dell’Idea del Risorgimento nazionale, che per lui era anche la continuazione della storia familiare del padre Romano e del fratello Romolo. Essere carabiniere vuol dire essere italiano alla seconda potenza: raccogliere in sé, ogni giorno, nell’esempio  tipico della tradizione mazziniana, il rigore, il senso di umanità, la possanza della Legge e l’Idea di un Popolo che si è unito politicamente tardi, ma, come gli Ebrei e i Cinesi, è antichissimo.
La Resistenza
Tutto inizia con la fuga dalle “SS”, con le quali lui si era rifiutato di collaborare, e poi continua nella Resistenza marchigiana, tanto lodata dallo storico, e prima di ciò agente dei servizi britannici, Max Salvadori. Per Carlo Alberto unirsi alla Resistenza non volle dire, come per moltissimi suoi compagni d’arme e carabinieri, iniziare una nuova “rivoluzione italiana”, ma ripristinare l’onore d’Italia, e il suo posto legittimo tra le Nazioni civili.
Il mito della “resistenza negata” fu, paradossalmente, proprio all’origine, tra il Feltrinelli e un certo Pci legato a Pietro Secchia, piemontese anche lui come Carlo Alberto, delle prime Brigate Rosse, nate in un paradossale “compromesso storico” rivoluzionario e sovversivo dalla unione della sinistra cattolica rivoluzionaria della facoltà di Sociologia a Trento con i giovani allievi dei resistenti comunisti legati alla tradizione di Pietro Secchia, che pure fu eliminato dal Pci di Togliatti su ordine del “piccolo padre”, Stalin. Due Resistenze, quella di Carlo Alberto e quella che darà poi origine, in parte, alle Brigate Rosse, che non si incontreranno mai se non per scontrarsi all’ultimo sangue.
Cos’è la mafia
L’esperienza di vero e proprio “segugio”, di straordinario analista e, direi, quasi “sociologo” di Carlo Alberto si affinarono con la sua esperienza in Sicilia, agli ordini del colonnello Ugo Luca, poi figura straordinaria dei nostri Servizi.
E come non dimenticare, qui, i tanti “allievi” di dalla Chiesa, come per esempio il generale Pignero, ucciso poi da una grave malattia e, soprattutto, da una sciocca e offensiva inchiesta giudiziaria?
Sono sempre più convinto, oggi, che Carlo Alberto abbia capito già tutto della mafia quando comandava il Gruppo Squadriglie di Corleone, dove poi doveva svilupparsi una delle più feroci e sanguinarie linee di evoluzione di “cosa nostra”.  Cos’era la mafia, per Carlo Alberto dalla Chiesa? Una struttura complessa, che subornava la società siciliana, un po’ come oggi certi gruppi terroristici jihadisti costringono la popolazione araba  a coprirli e a sostenerli,  e d’altra parte, secondo alcuni illustri filologi, la parola “mafia” sarebbe di origine araba.
La mafia, diceva Carlo Alberto, è «cauta lenta, ti misura, ti ascolta, ti pesa alla lontana». Una forza che si è engrammata nella vita civile e  economica siciliana (e non solo siciliana, naturalmente) per utilizzarla come strumento, quasi come se fosse un virus. Viene in mente qui quando il barone di Sant’Anna, feudatario di Calatafimi, ordinò ai suoi uomini di mano di osservare il combattimento tra garibaldini e borbonici, con l’ordine di dare una mano al vincitore.
Appena i soldati del Re mostrarono di essere i meno forti, i manutengoli del Barone scesero dalle alture intorno al luogo della battaglia e uccisero ferocemente i soldati del re di Napoli.
Ecco, la classe dirigente della Sicilia ha accettato il resto d’Italia come il barone di Sant’Anna i garibaldini.
La lotta e le Istituzioni
Erano le stesse idee sulla mafia, quelle di Carlo Alberto, piemontese  di Saluzzo, che aveva Giovanni Falcone, palermitano della Kalsa.
E ritorna qui, dopo che sono morti tutti, la reazione di dalla Chiesa alla sua nomina a Prefetto di Palermo: «mi mandano a Palermo con gli stessi poteri del Prefetto di Forlì», ma io sono convinto che non fosse certo una sorta di “punizione politica”, sono piuttosto sempre più certo che l’invio di Carlo Alberto sia stato il segno di quella ingenuità che talvolta lambisce anche i furbissimi di professione.
La lettura della mafia, prima che Carlo Alberto fosse inviato alla prefettura palermitana, era da parte della classe politica una analisi ingenua e troppo legata ad una tradizione ottocentesca da legulei, di “mafia delle acque” e di “mazzieri” locali, quelli che Salvemini accusava di sostenere i governi di Giovanni Giolitti, il “ministro della malavita”, secondo lo storico pugliese.
D’altra parte, siamo ancora ossessionati dalla  favola secondo la quale la mafia sarebbe stata riportata in Sicilia dagli americani con la loro “Operazione Husky” del 1943. Balla. I Servizi che analizzavano la Sicilia erano quelli britannici, dato che Londra aveva una lunga relazione di affari e con le famiglie nobili siciliane.
Quindi “cosa nostra”, per Carlo Alberto dalla Chiesa era un insieme di valori deviati, di interessi di coperture, certo, anche politiche, ma non solo, che permettevano l’eccezionalità siciliana e sostenevano il folle mito della “autonomia” dell’Isola.
Ci sono, quindi, dei legami, delle connessioni tra la lettura che della mafia fece Carlo Alberto e della strategia che egli usò contro le Brigate Rosse.
In entrambi i casi, si trattava di studiare i meccanismi simbolici, i processi culturali e politici interni, le forme del potere, ma, alla fine, occorreva colpire e colpire senza pietà.
La corrispondenza privata
È ben noto che Carlo Alberto dalla Chiesa non abbia potuto colpire duro la mafia, i “cento giorni” a Palermo erano davvero troppo pochi.
Ma, dalle sue interviste di quell’epoca, dalle iniziative nelle scuole, si delinea una strategia chiarissima: creare una rete di informazioni, notizie, relazioni che imbozzoli “cosa nostra”, per poi, come con le Brigate Rosse, colpire e colpire duro. Ritengo, per i nostri contatti di allora, che Carlo Alberto non abbia avuto nessuna cura delle cosiddette “relazioni internazionali” delle BR, come sono certo trascurasse volutamente quelle della mafia. Erano banalità, quando non “controinformazione”, il problema, allora come oggi, è creare una rete di informatori e poi dirigere uno strike durissimo al cuore dell’organizzazione.
Era certo triste, Carlo Alberto, perché percepiva che la classe politica, nel suo insieme, salvo per qualche tratto Francesco Cossiga e Bettino Craxi, non comprendesse fino in fondo il pericolo mafioso, come prima aveva giocato con quello delle BR, e quindi lo emarginasse. Mi ricordo di una lettera a mia madre di Carlo Alberto dalla Chiesa in cui, ringraziandola per gli auguri, che «la nostra famiglia (l’Arma, ndr)  ha tanto bisogno di avere gli alamari puliti e circondati dalla considerazione dei puliti».
A me, poi, nell’anno 1980, aveva scritto che «troppe circostanze  conducono a registrare l’amarezza, la solitudine, l’incomprensione, il calcolo, troppe situazioni sanno di equivoco, di compromesso, di ipocrisia, di riserva mentale». E ora, io con lui, e sempre dalla stessa lettera a me indirizzata da Carlo Alberto, voglio ripetere: «Coraggio! Un coraggio che è solo ricordato dagli umili, dai modesti, dagli inermi, dagli ignoti che, da ogni parte d’Italia e non, mi chiedono e mi dicono di voler “credere” ancora».
Ecco, è da questa Italia umile che ancora “crede”, dagli alamari puliti, dalla limpida coscienza nazionale, dal rispetto delle nostre migliori tradizioni, tra le quali quella di Carlo Alberto dalla Chiesa brilla, dovremo ricominciare a ricostruire il Paese, il più presto possibile. Coraggio.

Presidente de “La Centrale Finanziaria Generale SpA”; professore di Economia e Politica internazionale presso la Peking University (Cina)

 

Ecco.

Io non dimentico i veri Eroi Italiani.

Cari lettori, sarebbe bello che nessuno lo facesse: è da questa nostra storia che possiamo trarre insegnamento per la nostra rinascita.

Come trent’anni fa mi toccò la Tua storia, continua a farlo ogni giorno.

GRAZIE. IO NON DIMENTICO. E MI INCHINO. ORA E SEMPRE.

 

 

 

 

Lascia un commento

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

n/a